DEMOCRAZIA, CHE IN GRECIA VUOL DIRE CONFLITTO

La quasi totalità delle parole che riempiono questo foglio sono di origine greca.democrazia350x228

Ergo, ciò che sta succedendo in Grecia non può non riguardarci. Eravamo forse “giustificati” per non comprendere la lingua islandese, o lo spagnolo. Questo perché in Islanda, Europa, e in molti paesi dell’America Latina, si è deciso quasi a furor di popolo di non pagare il debito. In forma molto diretta, (anche) con un referendum, per quel che riguarda Reykiavik; con una modalità più “tipicamente” sudamericana per quel che riguarda invece alcuni paesi del Cono Sur.

La Grecia, dal canto suo, è diventata il paradigma della crisi e di quanto le ricette adottate per curare il male da chi quella malattia l’ha generata si siano rivelate del tutto inutili. Di più: criminali. 
L’Europa, questo grande ideale perseguito dal grande capitale ha fallito ancor prima di misurarsi con quella che avrebbe dovuto essere la sua sfida più significativa ma che è al contempo la truffa più evidente; unificare popoli. Tradotto: omologare la forza lavoro. Poter sfruttare impunemente in ogni angolo del vecchio continente. 


Già l’anomalia di avere una moneta unica per stati diversi, fece trasecolare fior di economisti che di sicuro non erano tra gli assaltanti il Palazzo d’Inverno, ma la furia propagandistica con cui si annunciava la nascita dell’anti-dollaro raggiunse l’obiettivo di nascondere la polvere sotto il tappeto. Potere alle merci, diritti in esilio. La sconfinata fiducia nella locomotiva d’Europa ha fatto credere a “nobili” economie e paesi rampanti che la potenza del marco avrebbe pianificato e risolto tutti i problemi. La Germania sarebbe stata stampella e faro per chiunque avesse intonato con convinzione e fervore il te deum al libero mercato. Al contrario, c’è stato il de profundis dei diritti. 
Forse vale la pena ricordare che la “ricostruzione” balcanica è stata quasi interamente gestita da Berlino, ma qualcuno ne ha memoria? Ora la Grecia – che risulta essere sempre in quell’area geografica – ridotta all’osso da governi corrotti perché devoti alla divinità del mercato è diventata la icona del capitalismo del XXI secolo. Un paese in svendita. Per soddisfare le fauci mai sazie del profitto si è costituito il comitato permanente dello sfruttamento. Delle risorse umane e naturali. A presiederlo è la cosiddetta, famigerata, troika: Banca Centrale Europea, Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale.

I quali via via negli anni si sono serviti di quanto più degenerato la presunta unificazione europea potesse esprimere; nazionalismi e frontiere, spalancate ma sempre più chiuse. L’Europa dei popoli che doveva essere è diventata l’Europa delle fortezze. Per rinchiuderci tesori ai quali solo le solite elite possono accedere. Sulla pelle di chi stimolato da dogane aperte trova una interminabile Lampedusa. 
Il dramma greco è la tragedia di tutti, Atene è la vera capitale europea. 

Così come Buenos Aires dieci anni fa fece sentire l’eco degli scontri a tutto il mondo. Sordo a qualsiasi cacerolazo. Ma da quella mattanza neo-liberista che sparse sangue sulle strade un modello di economia alternativa prese corpo. Capitali in fuga, fabbriche autogestite. Discussione partecipazione e, perché no, produzione. Dopodiché, le faide scatenate tra famiglia Kirchner ed il gruppo Clarín proprio non ci appassionano, ma il natale insanguinato del 2001 ha suggellato il protagonismo di una soggettività popolare sulla voracità delle banche. Braccio armato del capitale. Menem, come il Pasok, ha voluto applicare alla lettera i dettami neoliberisti, con la pretesa di privatizzare ed archiviare anche la Memoria, per costringere un intero paese a costruire sulle proprie macerie un finto ideale di benessere. Lo sfacelo però fu reale. La Grecia, il popolo greco, paga i danni di crimini altrui, lo smantellamento dello stato sociale a colpi di rating, spread e default. 
La civiltà che ha inventato le parole si trova ora assediata da un alfabeto incomprensibile.
E si esprime quindi con un linguaggio che più si adegua a quella realtà: quello del conflitto. Unica alternativa valida in un paese alla soglia della bancarotta per volere delle banche. La civiltà che ha inventato la democrazia sta conoscendo una dittatura forse più feroce di quella dei colonnelli. La tirannia del debito sta mietendo vittime perché non può sopportare chi vi si oppone finanche con la sola scusa della sopravvivenza. 
Una paese intero sotto ricatto della moneta unica, della economia unica, del pensiero unico. E qualcosa di molto simile sta succedendo in Italia senza che ci sia ancora la seppur minima consapevolezza del drammatico periodo storico in cui siamo immersi – nonostante le fiammate di una autunno rovente in corso – con una intera classe dirigente alla mercé del diktat europeo e completamente appiattita sul mantra europeista della unificazione a tutti i costi.
Manovre finanziarie confezionate affinché quei costi siano coperti da quegli stessi strati della popolazione che di questa (ennesima) crisi ne stanno pagando i nefasti effetti.

Una crisi pilotata sull’annientamento dei diritti e sull’erosione del welfare. Ancor prima della dichiarazione ufficiale dello stato di crisi c’è stato il metodico e sistematico attacco al mondo del lavoro attraverso la via marchionne al benessere. Pomigliano e Mirafiori significano anche questo; un ricatto istituzionalizzato sotto forma di new deal. Quella che si considera il vero insostituibile ammortizzatore sociale sta esaurendo la sua riserva aurea. La famiglia infatti, questo feticcio socio-economico che si vuole granitico ma che si sta facendo di tutto per demolirlo, sopperisce all’assenza dello Stato proprio là dove questi invece dovrebbe far pesare il suo intervento. Riduce la forza lavoro a pura mercanzia e genera precarietà, i cui visibili danni ricadono come pioggia acida su bilanci “familiari” già insopportabilmente perseguitati da una politica dei sacrifici da decenni sperimentata e consolidata. Il tutto, anche grazie ad una opposizione inconsistente e al servilismo di sindacati aziendali. L’accordo del 28 giugno e l’articolo 8 della recente manovra lo sta a dimostrare. La demonizzazione del pubblico e “privato è bello” sono riusciti a minare quanto di stato sociale si era conquistato in questo paese, permettendo il logoramento culturale di un tessuto sociale ancor prima, e quindi responsabile, del suo fatale disincanto; della sua fatale rinuncia a guadagnarsi un proprio protagonismo. 
Ed il suo sonno genera i mostri che tutti abbiamo davanti agli occhi. 

Le piazze nordafricane e qualche piazza europea, ora anche quelle nordamericane,  propongono invece una prassi che va in assoluta controtendenza rispetto a ciò che sembrerebbe essere un inesorabile processo di annichilimento delle coscienze, sebbene spetterebbe a noi ricercare e ritrovare modalità più vicine alle nostre esperienze per rilanciare una seria duratura solida iniziativa popolare. Che vada anche oltre l’indignazione. Che sappia proporre e comunicare la propria idea di società. Che non sia un’alternativa alla governance della crisi né tanto meno un’alternativa di governo. 
Il 15 ottobre servirà anche a questo. Oggi forse più che mai democrazia significa conflitto. Dei venditori di sogni e ciarlatani di ogni risma conosciamo nome e cognome. 
Indirizziamo loro la crisi. Procuriamogli la nemesi.

M.A.