Noi puoi uccidere un’idea se la sgomberi.

Alla Scuola e Cultura Popolare di Via Nola 5 si sono presentati all’alba con ruspe tronchesi e assetto antisommossa.

L’opera di demolizione è iniziata in sordina, quando la città ancora dormiva. Come fanno i topi d’appartamento, in definitiva. Come chi deve nascondersi dalla luce del sole per non rendere pubbliche le proprie malefatte. La città dormiva ma la cittadinanza sta con gli occhi ben aperti quando si continuano a commettere ingiustizie in nome della “legalità” e della “sicurezza”. Da anni Scup promuove propone e produce spazi di libertà in un tessuto sociale sempre più lacerato, in balia di amministrazioni di centro-qualsiasicosa che non riescono a dare risposte neanche alle esigenze basilari della popolazione.

Alla mercé di palazzinari e lobbies politiche. L’autorganizzazione, la occupazione di immobili che giacciono in alcuni cimiteri sociali, perché tali sono diventate molte zone delle nostre metropoli, fa paura. Ancor più l’idea, a volte, che la sua realizzazione; che strappare ai soliti esecutori del Sacco di Roma attraenti proprietà “in disuso” da trasformare nell’ennesimo centro commerciale o nell’ennesima palazzina in mano a privati. La socialità, lo sport popolare, la cultura, non hanno diritto di cittadinanza in territori urbani dove sembrano destinati a scomparire la solidarietà e il bene comune. Prevale invece la in-cultura della diffidenza, della guerra tra poveri, del disprezzo per qualsiasi cosa suoni a “diverso”; di ogni tipo di razzismo e fascismo.

Prevale, e rischia di affermarsi, un modello di società che riproduce pari pari quello della expo milanese: una immensa vetrina che luccica e abbaglia al cui interno si consuma il rito della sepoltura di ogni tipo di diritto. Un modello di società che ricalca il modus operandi del capitalismo, che seguita imperterrito a perseguire il suo obiettivo di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite.

Le giunte che si sono susseguite in tutti questi anni, aldilà del “colore” che dovrebbe caratterizzarle, avranno forse modalità diverse ma una cosa in comune: desertificare il dissenso. Si promette per non mantenere, tagli lineari ai servizi essenziali per le persone, controllo sociale spacciato per sicurezza, totale mancanza di risposte all’emergenza abitativa, continue intimidazioni nei confronti di spazi sociali autogestiti. Gestione mafiosa della cosa pubblica, mafia negli appalti. C’è una sola occupazione, illegale illegittima e realmente pericolosa, che bisognerebbe sgomberare; quella del Mondo di Mezzo sugli scranni del potere di questa città.

Per farlo c’è bisogno di una opposizione sociale che mantenga al suo interno le tante realtà che la animano, e tra innumerevoli difficoltà per un generale impoverimento culturale ancorché economico, e che invece sono diventate target per la voracità neoliberista e per i neo-asfaltatori che la la sostengono e l’alimentano.

Totale solidarietà a Scup!. Non si uccide una idea se la sgomberi.

Associazione Italia-Nicaragua;

Autorecupero SanTommaso;

Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana – “Caracas ChiAma”;

Spazio Oxygene;

 

S.CU.P-web

 

Jobs Act conoscerlo per combatterlo

jobsAct

 

Ad un mese dalla definitiva entrata in vigore del “Jobs Act” e ad una settimana dall’inaugurazione dell’expo, ennesimo scempio ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori,  l’associazione Italia-Nicaragua e Spazioxygene vi invitano all’incontro:

Jobs Act conoscerlo per combatterlo

intervengono
GIOVANNI DE FRANCESCO avvocato del lavoro
CLASH CITY WORKERS
CONFEDERAZIONE COBAS

Venerdì 8 maggio ore 18
Via San Tommaso D’Aquino, 11/a (M Cipro)

La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo KURDO

kobane20F

 

 

 

Un incontro per ascoltare le impressioni di chi ha visitato il campo profughi di Suruc, raccogliere aiuti per appoggiare le attività di Rojava Calling e della Mezzaluna Rossa Curda, discutere su un tentativo di autodeterminazione democratica e resistente in un contesto di violenza che l’Occidente ha contribuito ad alimentare salvo poi doverne istericamente gestire le conseguenze.

INTERVENITE E DIFFONDETE

“Mettiamo in comune la nostra terra, acqua, energia, costruiamo una vita democratica libera.”
Abdullah Ocalan

Lima, l’asimmetria Nord-Sud inquina l’atmosfera

di Geraldina Colotti per il Manifesto

 

Conferenza delle parti sul clima. Prolungata per mancanza d’accordo la Cop20

lima

Li hanno messi tutti nella stessa barca: tutti i lea­der mon­diali delle grandi potenze, pre­senti alla Con­fe­renza dell’Onu sul clima (Cop20), in corso a Lima, in Perù. Pupazzi di car­tone che spin­gono il pia­neta verso l’abisso: il primo mini­stro austra­liano Tony Abbott, il pre­si­dente Usa Barack Obama, il cinese Xi Jin­ping, il pre­mier cana­dese Ste­phen Har­per, l’indiano Naren­dra Modi, il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin e il primo mini­stro giap­po­nese Shinzo Abe. A mar­gine della Cop20, i movi­menti hanno mani­fe­stato e discusso. Hanno mar­ciato in difesa della Madre terra. E hanno con­se­gnato una pro­po­sta «a nome degli sfrut­tati e degli oppressi de mondo, messi a mar­gine da un sistema eco­no­mico e cul­tu­rale che li sot­to­mette a set­tori raz­zi­sti, fon­da­men­ta­li­sti, maschi­li­sti e padro­nali inte­res­sati a con­ser­vare il modello capi­ta­li­sta». L’Alba dei movi­menti, un’articolazione che ha a Lima un con­tro­canto isti­tu­zio­nale: quello dell’Alba-Tcp, l’Alleanza boli­va­riana per i popoli delle Americhe-Trattato di com­mer­cio dei popoli, i cui rap­pre­sen­tanti sono impe­gnati nel nego­ziato. Un asse tra­sver­sale che oggi com­pie 10 anni e che pro­pone un’integrazione inno­va­tiva e soli­dale: sul piano poli­tico, eco­no­mico, edu­ca­tivo, ambien­tale e in dia­logo per­ma­nente con i movi­menti sociali.

La Con­fe­renza avrebbe dovuto con­clu­dersi venerdì, ma non si è tro­vato accordo: mal­grado i discorsi degli Usa e l’intesa rea­liz­zata a novem­bre tra Washing­ton e Pechino. E mal­grado la con­sa­pe­vo­lezza ormai dif­fusa che la soglia dell’allarme sulle con­se­guenze del riscal­da­mento cli­ma­tico stia per rag­giun­gere un punto di non ritorno. Così le discus­sioni sono andate avanti e dovreb­bero con­clu­dersi oggi. «Ci siamo quasi, ma abbiamo biso­gno di un ultimo sforzo», ha detto Manuel Pul­gar, mini­stro dell’Ambiente peru­viano. E i col­lo­qui sono con­ti­nuati a porte chiuse nella sede del Pen­ta­go­nito, il mini­stero della Difesa. Fuori, si veri­fi­cava intanto un auto­gol di Green­peace che, con uno dei suoi blitz ha scritto uno slo­gan per le ener­gie rin­no­va­bili su un sito archeo­lo­gico con­si­de­rato patri­mo­nio dell’umanità. Il governo peru­viano ha denun­ciato il gruppo ambien­ta­li­sta e l’incidente non è rien­trato nono­stante le scuse uffi­ciali dei respon­sa­bili dell’organizzazione.

I rap­pre­sen­tanti dei 195 paesi devono licen­ziare un testo-base per la pros­sima Con­fe­renza sul clima, che si terrà a Parigi nel 2015 e che dovrebbe sosti­tuire il Pro­to­collo di Kyoto. Secondo il parere degli esperti, per con­te­nere l’aumento del riscal­da­mento glo­bale a 2°C, occorre ridurre da qui al 2050 le emis­sioni di gas a effetto serra (Ges) dal 40 al 70%: prin­ci­pal­mente quelle di CO2. Il docu­mento di Lima dovrebbe con­te­nere gli impe­gni con­creti dei sin­goli paesi. L’asimmetria tra nord e sud e le alleanze poli­ti­che che la gover­nano com­pli­cano però le discus­sioni, e disat­ti­vano i buoni pro­po­siti pro­nun­ciati anche quest’anno.
La Con­ven­zione Onu sul clima, del 1992, rico­no­sce «una respon­sa­bi­lità comune, ma dif­fe­ren­ziata» in base a due cate­go­rie di paesi, quelli svi­lup­pati e quelli in via di svi­luppo. E allora, come deci­dere i sin­goli con­tri­buti, come tro­vare regole comuni per valu­tare ina­dem­pienze e risul­tati? I paesi afri­cani, che con­cor­rono alle emis­sioni solo in minima parte (circa il 3%), chie­dono pre­cise garan­zie. E la que­stione degli aiuti al Sud, insieme a quella dell’equità, resta cen­trale. Secondo un rap­porto Onu, nel 2050 le spese neces­sa­rie per pro­teg­gere le popo­la­zioni dei paesi in via di svi­luppo dai rischi legati al cam­bia­mento cli­ma­tico potreb­bero arri­vare fino ai 500 miliardi di dol­lari all’anno: sem­pre­ché si ottenga il risul­tato di limi­tare a 2°C l’aumento del riscal­da­mento glo­bale: «I costi per l’adattamento potreb­bero arri­vare a 150 miliardi di dol­lari all’anno nel 2025–2030 e tra i 250 e i 500 miliardi nel 2050», ha indi­cato il Pnue, il Pro­gramma delle Nazioni unite per l’ambiente.

Le azioni d’adattamento mirano a pro­teg­gere le popo­la­zioni e le infra­strut­ture dall’impatto del cam­bia­mento cli­ma­tico come l’aumento del livello degli oceani, le inon­da­zioni o le sic­cità. Tra i temi più dif­fi­cili del nego­ziato, c’è il finan­zia­mento di que­ste spese, insieme a quello per ridurre i gas a effetto serra. I paesi del Sud chie­dono alle grandi potenze di rispet­tare gli impe­gni presi: ero­gare i 100 miliardi di dol­lari d’aiuto annuale da qui al 2020; ed esi­gono che per il futuro accordo, ope­ra­tivo dal 2020, i paesi svi­lup­pati fis­sino sca­denze e quote pre­cise quanto ai finan­zia­menti che inten­dono garan­tire al Sud per aiu­tarlo a ridurre le emis­sioni, soste­nerlo nei disa­stri ine­vi­ta­bili e con­tri­buire al loro svi­luppo sostenibile.

I paesi dell’Alba (il blocco regio­nale ideato da Cuba e Vene­zuela, e inte­grato da Boli­via, Ecua­dor, Nica­ra­gua, Anti­gua e Bar­buda, Domi­nica, Saint Vin­cent e Gre­na­dine) hanno par­lato con una sola voce. Nei 9 paesi abi­tano oltre 74 milioni di per­sone. Su una super­fi­cie totale di 3 milioni di kmq, il 49,5% è costi­tuito da fore­ste, il 6,73% da terra col­ti­vata. L’inedita inte­gra­zione regio­nale mette al cen­tro «lo svi­luppo inte­grale», l’uguaglianza sociale, il buen vivir e l’autodeterminazione dei popoli. «In que­sto accordo, si devono inclu­dere i 23 milioni di abi­tanti di Tai­wan così come lo Stato di Pale­stina. Ma se, in base alle stime della Cepal, solo per le com­pen­sa­zioni di Nica­ra­gua e Sal­va­dor ser­vono 10 miliardi, come può il Fondo verde di 100 miliardi far fronte alle neces­sità di oltre 130 paesi in via di svi­luppo?» ha detto il mini­stro Paul Oquist, rap­pre­sen­tante del Nica­ra­gua. «Per for­tuna – ha aggiunto – non abbiamo atteso le solu­zioni da que­sta Con­ven­zione. Dopo il ritorno al potere del pre­si­dente Daniel Ortega, con i fondi nazio­nali e gra­zie all’Accordo petro­li­fero di Alba-Petrocaribe, il governo ha costruito altre 1.000 case per rifu­giati cli­ma­tici a seguito di ricor­renti inon­da­zioni. E siamo pas­sati dal 25% di ener­gia rin­no­va­bile nel 2007 al 51% nel 2013, e arri­ve­remo al 90% nel 2020». Dal Nica­ra­gua, alla Boli­via all’Ecuador, anche i paesi dell’Alba hanno le loro con­trad­di­zioni, sia per le grandi opere che per i rischi insiti nell’economia estrat­ti­vi­sta. Dal “socia­li­smo del XXI secolo” arriva però la cri­tica più forte al modello di svi­luppo che sta por­tando il pia­neta alla rovina. Ha detto ancora Oquist: «Il livello di con­cen­tra­zione a cui è arri­vato il potere mili­tare, poli­tico, eco­no­mico e finan­zia­rio si basa su un modello ege­mo­nico di pro­du­zione, con­sumo e finanza inso­ste­ni­bile, entrato in crisi nel 2007–2009. Le solu­zioni richie­ste dall’umanità impli­cano una tra­sfor­ma­zione del modello e un suo superamento».

E men­tre, a nome della Boli­via (che pre­siede il gruppo G77), il pre­si­dente Evo Mora­les ha chie­sto ai paesi svi­lup­pati «di non men­tire e di impe­gnarsi dav­vero», il Ver­tice dei popoli e i movi­menti dell’Alba hanno chie­sto che nell’accordo venga inse­rita la denun­cia con­tro la mul­ti­na­zio­nale Chevron-Texaco, per i danni inflitti all’Ecuador. Nella loro dichia­ra­zione, i movi­menti esi­gono che i paesi svi­lup­pati rico­no­scano le respon­sa­bi­lità verso i popoli del Sud e sal­dino il debito sto­rico ed eco­lo­gico con­tratto con quei paesi: «Nes­suna azione per fer­mare il cam­bia­mento cli­ma­tico sarà effi­cace – scri­vono – se non si pro­muo­vono poli­ti­che pub­bli­che in favore della pic­cola agri­col­tura fami­gliare e con­ta­dina. Con­ti­nue­remo nella lotta per cam­biare il sistema… non il clima».

Lotta per la casa, lotta di classe. 21 marzo 1958 – 13 dicembre 2014

La legge Togni (21-3-1958) che prevedeva la vendita di tutto il patrimonio pubblico di alloggi a favore degli inquilini passata quasi all’ unanimità, anche con l’appoggio delle sinistre, produceva tanti piccoli proprietari di casa dividendo gli inquilini in grado di acquistare un appartamento da un’altra parte, più povera, che non poteva nemmeno disporre del milione, milione e mezzo di lire necessario per diventare proprietaria dell’appartamento.

Si costituiva così uno strato relativamente soddisfatto, sicuro almeno di disporre di un alloggio per tutta la vita e di trasmetterlo ai figli: l’operazione democristiana ebbe dunque un significato di ampia portata che si inseriva in quello analogo operato nello stesso periodo o poco prima con gli enti di riforma agraria (legge Segni).

In realtà ci furono delle resistenze a questa legge, ma soprattutto a livello di base. Nelle sezioni del PCI e del PSI, nelle assemblee di rione la parte più cosciente della classe operaia denunciò quello che veniva realizzato con questa legge: ci si disfaceva di un patrimonio ottenuto con i contributi di tutti i lavoratori, e che doveva essere a disposizione della generalità dei lavoratori invece che del libero mercato e, dunque, della proprietà privata; il fatto che questi milioni di vani (di tanto si tratta) restassero in affitto costituiva per il resto del mercato un enorme calmiere che agiva da freno al lievitare dei prezzi della casa.

Ma era proprio per questo che la legge (che porta il nome di una delle più sporche figure democristiane) venne varata: per dividere i lavoratori e per liberare il campo alla speculazione immobiliare. Il PCI e il PSI su questa legge non presero una posizione netta e di massa; nelle aziende solo poche avanguardie riuscirono a coinvolgere nella discussione le commissioni interne.

A Firenze le assemblee poco a poco si svuotarono, i comitati di inquilini non ressero di fronte alla “spontanea” aspirazione di altri decisi ad acquistarsi la casa dove vivevano.

Le vendite frazionate si estesero perciò a buona parte del patrimonio pubblico (Ina Casa – Case Fanfani ecc.); i comitati si sciolsero e con essi l’ultima iniziativa a livello territoriale che i partiti riformisti avessero preso con le caratteristiche di “movimento di massa” e di “antagonismo rispetto alla legge di mercato”.

Tratto da “Le lotte per la casa a Firenze” di Mattei – Morini – Simoni Ed. Savelli 1975

 

Nazione malata, capitale infetta

Non si può fare a meno di pensare a Pier Paolo Pasolini mano a mano che giungono notizie su Mafia Capitale. Aldilà della facile suggestione, ora si potrebbe quasi dire che oltre a sapere, “io so”, ci sono anche le prove. Le prove di un sistema fasciomafioso messo su grazie a compiacenze istituzionali e giuridiche. Non sono certo sufficienti gli sforzi di una Procura che per anni è stata famosa per essere un porto delle nebbie. Questa definizione risale ad anni e anni fa, quando il redditizio intreccio tra criminalità e potere era già una realtà. Già visibile a chi sapeva ma non aveva le prove.v_v

E non sono certo sufficienti le telecomandate ondate di sdegno da parte di chi in quel caliginoso porto faceva approdare comodamente le proprie navi. La sovrapposizione tra mafia e politica, al punto di non capire più esattamente dove inizia l’una e finisce l’altra, non è storia recente. E, stiamone certi, non si esaurisce per gli effetti di una inchiesta giudiziaria. Affonda le radici in un terreno che ancor prima che giudiziario e politico, è culturale. Lo stesso che ha fatto germogliare i vari fascismi in giro per il Paese.

Quello “tradizionale”, alla faccia dei liquidatori delle ideologie del secolo passato; dei rottamatori dei formattatori e dei secessionisti di ogni sorta che da ormai troppo tempo martellano sul superamento della destra e della sinistra come categorie di riferimento.

È esattamente in questo solco che si annida il qualunquismo quale miglior viatico all’autoritarismo. Grazie anche a una certa sinistra che ha abbandonato le strade e le piazze per dedicarsi interamente al Palazzo. Per occuparlo. Per legittimare le nuove categorie sociali in cui riconoscersi. Estranee a qualsiasi tipo di reale partecipazione.

Democratici, cittadini, forzaitalioti e tutta una serie di post-qualcosa che servissero a scrollarsi di dosso le etichette tipiche di tutte le prime e le seconde repubbliche che si sono susseguite fino a oggi. Non ultima, quella uscita fuori da Mani Pulite. Dunque è quasi sempre la Magistratura che detta i termini di cambiamento. Per lo meno quelli per l’appunto che sanciscono istituzionalmente il passaggio da una repubblica all’altra.

In realtà, la società corre a una velocità ben diversa da quella burocratica. Anticipa, per bisogno e per necessità, le svolte “epocali” annunciate via via da governi che si succedono e si eliminano nell’arco di un battito d’ali.  A volte, invece,  rimane immobile, e vede il turbinio gattopardesco intorno a sé come un ineluttabile segno del destino. Eterni spettatori mai in prima fila. Allora è comodo rifugiarsi in quella sorta di limbo parastatale che sono le mafie. O quello che più prosaicamente è stato definito il “mondo di mezzo”.

Non vale l’indignazione se ci si è voltati dall’altra parte quando si denunciava e si gridava (e si continua a gridare), fino a rimanere senza voce, che la corruzione la malapolitica e il malaffare si erano impossessati di quel poco che rimaneva di ordinamento democratico. Più facile adagiarsi e consolarsi all’ombra di cronache fotocopia che riportavano (e continuano a riportare) solo problemi di ordine pubblico causati da isolate frange antagoniste. Da reduci del Secolo Breve.

Nel frattempo, mentre la realtà cominciava sempre più ad assomigliare a una pellicola di Terry Gilliam, Romanzo Criminale si ri-faceva realtà. Una realtà già accaduta quindi abbondantemente raccontata, e abbondantemente celebrata, che si riteneva solo per questo passata alla Storia. Invece no, ce la ritroviamo davanti ben piantata e in buona salute. Il sonno della Storia ha già generato mostri. Che hanno fatto in tempo a diventare grandi e capire dove e come è possibile rendere eterna la sonnolenza e perpetuare la propria esistenza.

Ai danni non di partiti o personalità di vario genere che si affannano a dichiarare la propria innocenza, ma al vero senso di comunità che è andato polverizzandosi sotto i colpi della finta democrazia al soldo del liberismo più sfrenato.

Cos’altro è altrimenti tutta questa storia di mazzette corrotti corruttori intimidazioni affari e prostituzione politica se non l’ennesima rivelazione della vera natura del capitalismo? Gli ingredienti ci sono tutti, e fa ribrezzo solo a pensare di elencarli, per quanto siano tutti straconosciuti. Lo sfruttamento, la violenza al servizio di un facile profitto, la manipolazione mediatica e le truffe elettorali, il terrorismo e il continuo richiamo alla “sicurezza” non sono degenerazioni del capitalismo: ne sono le fondamenta, gli alimenti indispensabili da cui ne trae nutrimento. La linfa vitale.

Quanto sta accadendo a Roma non è un fulmine a ciel sereno, ma la risultante di decenni di sistematico bombardamento delle regole più elementari del vivere civile. A cui hanno baldanzosamente partecipato, con ruoli da protagonista, meschine figure preposte a farle rispettare. Roma è una città violentata da decenni, massacrata dai cartelli della cementificazione selvaggia. Non ci sono dunque solo mondi di mezzo, superiori e inferiori, ma anche un mondo ai lati che ha rifiutato il diktat che imponeva (e continua a imporre) il dominio della merce sulle persone, il primato del profitto sulla umanità.

Per assurdo, si è venuto a scoprire che coloro i quali alimentavano il fuoco del progrom in versione italica erano gli stessi che facevano affari (e soldi, tanti soldi) sul business dell’accoglienza. Questo mostro che ci appare così lontano e quasi intangibile, in realtà è ben presente tra noi quando con sufficienza e superficialità liquidiamo la questione immigrazione come un inaccettabile pericolo per il nostro benessere.

Quando si accusano i rom di ogni nefandezza e colpevoli di nomadismo per nascondere le visibilissime crepe che si sono create nel nostro senso di solidarietà e nel nostro tessuto sociale. Ormai ridotto a brandelli, artificiosamente ricomposto a comando ogniqualvolta si avvicinano le scadenze elettorali.

Se permettiamo la distruzione della scuola pubblica, del welfare; se permettiamo che la Memoria diventi carta straccia o peggio ancora un ricordo, spianiamo la strada al più elementare dei fascismi. Quello quotidiano, quello che ci fa abituare a ogni ingiustizia se commessa poco più lontano della nostra vista, quello che asfalta i diritti per tutti in virtù dei privilegi per pochi. Quello di una informazione che non rende conto alla cittadinanza ma al proprio editore di appartenenza. Quello che gaudente va a braccetto con il nostro disinteresse e si sfrega le mani sapendoci inebetiti appresso ai simulacri del capitale.

“Se pijamo Roma”. Ed è il capitale che si è presa la Capitale.

Sotto forma di bande della magliana di holding del crimine o di amministrazioni criminali che continuano a lucrare sulle emergenze e sulle disperazioni di questa città incantata. La casa e il lavoro, innanzitutto, ma poi tutte le varie forme di disagio sociale alle quali non hanno saputo dar risposta se non quella dei manganelli e degli sgomberi. In perfetta sintonia quindi con tutta quella pseudo-filosofia del mondo di mezzo evocata dai professionisti della mafia. Che non è più una montagna di merda, ma una vera propria catena montuosa. Dove, tra l’altro, rischiano di finire stritolati alcune tra le vere vittime di questo ennesimo omicidio civile.

Lavoratori e lavoratrici di quelle cooperative che in condizioni di lavoro complicatissime, nel silenzio generale avevano già messo sotto accusa i propri gruppi dirigenti, diventati poi tristemente famosi per essere diventati il motore del meccanismo di corruzione all’interno del comune di Roma. Lavoratori e lavoratrici abbandonati da sindacati compiacenti che firmano con disinvoltura ogni genere di accordo. Sempre al ribasso e sempre sfavorevoli, per non disturbare il manovratore, salvo poi irretirsi allo spasimo per la peggiore riforma del lavoro mai concepita dal dopoguerra a oggi. In luogo di spendere risorse ed energie per internalizzare servizi che gli stessi enti pubblici erogano, si elargiscono oscene quantità di denaro a cooperative che di sociale non hanno altro che un pallido ricordo. Quando, parola di molti dirigenti del partito democratico, quelle stesse cooperative erano “il fiore all’occhiello della sinistra”. Qualcuno di quei dirigenti, prima di lasciare la guida delle legacoop per occupare la poltrona più alta del ministero del lavoro, s’intratteneva a tavola con parte di quella feccia che ora è venuta a galla. A sua insaputa, ovviamente.

Nel vortice di notizie di questi giorni, si sono rincorse conferme e smentite, analisi contro-analisi e immancabili editoriali di Saviano; partiti commissariati e sindaci scortati; amicizie abiurate ed ex-sindaci dalla memoria corta; indignati autentici e indignati improvvisati; attori pompati e calciatori rissosi in cerca di protezione; cardinali viziosi e parlamentari sul mercato.

Insomma, a guardarlo bene il solito penoso repertorio di un paese ferito ancor prima che nella sua identità, ammesso che ne possegga una, nell’immagine riflessa della sua ipocrisia.  Di  ignorare con olimpica calma il putiferio che gli si scatena nelle proprie viscere. Già messe a dura prova dagli usurpatori della partecipazione, dagli affossatori della dignità. Con arcaica modernità, per me continuano a essere i nemici del popolo.

In questo vortice mi sembra ci sia dimenticato di ricordare, per esempio, chi nel finire degli anni Settanta e al primo affacciarsi degli Ottanta, indagava e ricercava per impegno rivoluzionario e obbligo di verità i legami tra la estrema destra e apparati dello Stato, forze dell’ordine incluse.

E per questo fu assassinato, Valerio Verbano.

M.A.

La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo Kurdo

KURDISTAN San Tommaso
Locandina

 

Domenica 14 Dicembre 2014

La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo Kurdo

Via S.Tommaso d’Aquino 11/A (Fermata Metro A: Cipro) – Roma

 

  • Dalle 18.30: Incontro con Yilmaz Orkan, membro del  Congresso Nazionale del Kurdistan e portavoce dell’Associazione Uiki. Ufficio d’Informazione del Kurdistan.

  • Info e report dalla Staffetta Romana per Kobane.

  • Proiezioni video sulla Rivoluzione del Rojava e sulla lotta del popolo kurdo.

  • A seguire: Cena Sociale.