DAVVERO SIAMO TUTTI JE SUIS ?

La marcia degli ipocriti
La marcia degli ipocriti

 

“In guerra, la prima vittima è la verità”. Eschilo

 

Facile, troppo facile. Troppo facile perché ipocrita, troppo ipocrita.

Indignarsi a comando, disperarsi a tempo. E appena qualche soffio di storia prima, quando le bombe dilaniavano corpi anonimi ad Ankara a Beirut e nei cieli del Sinai? I trafiletti di chi ora spalma a nove colonne un inenarrabile orrore racchiudono la gerarchia del dolore. Se nasci nella parte sbagliata del mondo anche la tua morte è un fastidio, un intralcio, un pericolo. Può suggerire che le prime vittime di questa guerra sono le stesse che premono alle frontiere della nostra fortezza.

Le democrazie che sventolano la pace nelle adunate elettorali e poi armano i peggiori regimi di questo pianeta, calpestano anche il pudore di fronte al sangue ancora caldo di una normale strage in una normale capitale occidentale in un normale venerdì sera. Quando l’ipocrisia prende il sopravvento è il nazionalismo, quello bieco e codino dei campi di battaglia dove a combattere e a cadere sono sempre gli altri, che si erge a difensore della umanità. E ancora prima di far sentire lo strepitio dei cannoni stravolge e distrugge il senso delle parole. Le declina secondo la migliore convenienza; le trasforma in ciò che si può comprendere meglio: in merce.

Compie, in definitiva, una vera e propria esegesi del linguaggio affinché non si abbiano dubbi sulla genuinità delle decisioni. Sulla veridicità della risposta. Che non a caso diventa reazione. Se ci sono infatti i nostri sacri valori a essere messi in pericolo, non c’è guerra santa che tenga. I musulmani sono i primi e i più numerosi a morire per mano dei tagliagola del califfato; le menti e i “martiri” delle stragi di Madrid Londra e Parigi sono cittadini belgi inglesi francesi, salvo poi trovare passaporti immacolati tra i resti irriconoscibili di un kamikaze. È L’Islam però a finire sul banco degli imputati, e per comodo sillogismo chiunque fugga dalle guerre provocate da quegli stessi governi delle quali ora si dichiarano vittime, è di per sé un pericolo, un invasore.

Ergo, un potenziale terrorista. Tutto questo mentre le grandi potenze occidentali e le petromonarchie del Golfo finanziano quanti più possibile eserciti della libertà per spodestare il Male e far insediare il Bene. Il Bene poi, sfuggito di mano e tramutatosi in mostro, semina il terrore nelle nostre città. In questa asimmetria è contenuta gran parte della retorica guerrafondaia che accompagna una popolazione impaurita, quindi infinitamente più facile da sottomettere, a farla propria. E a non saper più distinguere la libertà dalla normalità. I principi dai valori.

In nome della propria sicurezza si può calpestare qualsiasi diritto. Anche quello di non piegarsi alla ipocrisia istituzionalizzata. Ed è precisamente in questa macroscopica fessura che s’insinua la insensatezza di sentirsi qualcuno nonostante non lo si è. Se ci si è lasciata sfuggire – semplificando forse in maniera eccessiva, ce ne rendiamo conto – una identità collettiva che per quanto piena di limiti e contraddizioni riempiva il vuoto culturale attuale nel quale ha avuto buon gioco la retorica jihadista ad inserirvisi, risulta più agevole il je suis qualsiasi cosa. Anche la più nobile, sia chiaro, o la più dolorosa.

Non ce la prendiamo, ovviamente, con chi usa questa formula per esprimere vicinanza e partecipazione, ma si rimane quanto meno perplessi per la sua origine profondamente ingannevole. Un claim perfetto nel marketing del terrore e nella finta lotta per sconfiggerlo. A uso e consumo di una cittadinanza che in preda alla paura, comprensibilmente, non può fare altro che appropriarsene come efficace antidoto all’isolamento e alla disgregazione, rinunciando a capirne il senso che altro non è che la faccia, sporca, della stessa medaglia.

Se il sedicente stato islamico esporta  la guerra fuori dai suoi confini, disegnati e controllati dalle stesse superpotenze economico-militari che dichiarano a ogni pie’ sospinto di combattere, in una sorta di franchising del terrore, la popolazione occidentale si difende per procura, affidando lo sconcerto la rabbia e la indignazione a un generico slogan (un claim “pubblicitario”, appunto) che riscuote un immenso “successo” mediatico ma che in realtà non dice nulla.

Non comunica nulla. Se non la strisciante assoluzione di stati e governi che cercano, e spesso malauguratamente trovano, il consenso, cavalcando l’onda della paura. Questo vale per gli Hollande e gli Obama come per i Renzi e i Salvini. C’è quindi una trasposizione concreta, materiale, tragica, rispetto a come il Capitale finanziario intenda perseguire i propri obiettivi.

Sotto forma di feticcio antropologico – “i nostri valori sono più forti del vostro terrorismo” – nonché nella sua veste abituale, e cioè di sfruttamento e assoggettamento  di  una parte consistente del pianeta per rimpinzare casse sempre irrimediabilmente esangui. Nella sua irrefrenabile corsa all’accumulazione, la guerra non è vista come un ostacolo, ma anzi come una risorsa irrinunciabile. Una ghiottoneria alla quale è difficile resistere.

La Storia è piena di questi drammatici esempi, e solo la sconcertante cronaca di questi giorni può distoglierne l’attenzione. E c’è quindi una stretta relazione tra la recessione economica dell’ultimo decennio e la deriva terroristica contrassegnata, nello specifico, dall’IS. Tra la rinuncia a identificarne i veri responsabili e addossare la colpa alle migrazioni di turno, come fossero esse la causa delle guerre e non le politiche predatorie dei veri stati canaglia.

Stati Uniti e Unione Europea in testa, seguiti dalle micro-fortezze su base etnica uscite fuori dalla disgregazione della Unione Sovietica. Il filo spinato alle loro frontiere, in una Europa che si proclama aperta democratica e accogliente, esprime più di mille parole. Non è un caso che l’apparente protagonismo della Germania, messa a tacere dai recenti “scandali”, sia stato ridimensionato non appena si è profilata la ipotesi di un ennesimo intervento militare della coalizione. Quella che, sotto le insegne della NATO, ha già massacrato intere popolazioni e ha frustrato qualsiasi tentativo di pace in Medio Oriente.

Un vero stato canaglia come Israele, continua indisturbato i suoi raid nelle terre occupate, rafforzando il suo ruolo di criminale istituzionale in compagnia della Turchia e delle monarchie saudite. Di fatto, mentre va in onda la messinscena mediatica di costernazione con il sottofondo sonoro della Marsigliese, gli unici a tenere capo al Daesh sono i Curdi, e soprattutto le donne curde. Un dato irrefutabile che al contrario sparisce nelle pieghe della narrazione camuffata che risulta poi essere qualsiasi narrazione di guerra. Sparisce anche per volontà di una popolazione che preferisce autoassolversi dinanzi a un massacro che ancora una volta vede le vittime indifese, colpite nel pieno della loro “normalità”, piuttosto che puntare il dito verso la inettitudine di chi esercita qualsivoglia forma di potere. Nel nome di quegli stessi valori inrrinunciabili. Nondimeno sparisce, o meglio è già sparito da qualche tempo, anche un credibile Movimento per la Pace che sappia opporsi in maniera determinante al degrado culturale che ha inondato le nostre esistenze.

Ancor prima di chi fa saltare in aria trascinandosi vite innocenti, colpevoli solo dell’atroce delitto di vivere.

Essere contro la guerra significa dire sì ai diritti, alla libera circolazione delle persone e non solo delle merci, alla inclusione sociale e alla libertà di culto quale essa sia. Senza che questa rappresenti il pretesto per qualsivoglia forma di prevaricazione.

Significa rifiutare la cultura della sopraffazione a cui assistiamo oggi nel mondo del lavoro, distruggere l’arma del ricatto che previene e pregiudica la partecipazione a ogni forma di rivendicazione dei propri diritti.

Essere contro la guerra vuol dire disarticolare il simulacro della moderna democrazia che si regge sul 40% dei consensi a scapito di una maggioranza minoritaria, resa innocua grazie anche alla nostra incapacità di unirci per raggiungere obiettivi comuni.

Dire NO alla guerra significa rispettare i morti di ogni latitudine; non esistono attentati più dignitosi di altri, secondo la geometria variabile di chi li racconta nel mercimonio delle edizioni straordinarie.

Essere contro la guerra vuol dire non nascondersi dietro un je suis, ma gridare a gran voce: noi siamo. Da tradurre in tutte le lingue possibile e immaginabili.

Dobbiamo ricordarcene sempre, non solo quando la strategia del terrore viene a bussare alla nostra porta di casa.

M.A.

 

LA MAFIA, QUESTA (S)CONOSCIUTA

catechismo

Nel perverso intreccio di notizie immagini commenti che ha caratterizzato la stampa istituzionale in questi ultimi giorni, specificamente sulla tragica vicenda di Boccea, a Roma, si nascondono (ma neanche tanto) le solite nefandezze di uno Stato e del governo che lo rappresenta, oramai totalmente adagiato sulla logica della dichiarazione a effetto e delle promesse che mai si riusciranno a mantenere.

Come avvoltoi, ci si avventa sul sangue ancora caldo delle vittime di una tragedia che immediatamente si trasforma in uno scontro inter-etnico.

Da un lato, la “cittadinanza stanca dei soprusi che reclama a gran voce sicurezza sicurezza sicurezza”; dall’altro una “etnia” che non solo terrorizza quotidianamente la popolazione con i suoi furti i suoi rapimenti di bambini e il suo criminale nomadismo, ma che per il solo fatto di esistere rappresenta una minaccia per il vivere civile.

E allora via al truce repertorio su ruspe sgomberi progrom di ogni genere e alla solita evanescenza di un centrosinistra, che amministra la città di Roma e presiede il governo nazionale, intento a rincorrere con affanno le politiche autoritarie e anti-migratorie della destra italiota.

Una rincorsa alla “identità” di cui ci si è resi conto può procurare molti voti.

D’altronde, nel clima di eterna campagna elettorale in cui vive il nostro paese, la tattica di soffiare sempre sul fuoco della disperazione e della emarginazione, quale essa sia, non può che rivelarsi vincente.

La pochezza delle rivendicazioni di una identità nazionale in confronto alla ineluttabilità – che porta in sé anche e soprattutto la tragicità – delle migrazioni, riesce a far breccia in quegli strati della popolazione abbandonati al degrado delle nostre periferie.

Dove, con scientifica precisione, sono stati via via tolti servizi, biblioteche, luoghi sani di aggregazione per fare spazio alla imprenditoria mafiosa.

Ancora una volta, per citare Eduardo Galeano, invece di combattere la povertà si combattono i poveri.

In quei luoghi dove però non arriva più la cultura, nel senso più ampio e umanistico si possa intendere, arriva quella sottospecie di Golem sociale che è la “politica” dei nostri tempi.

Castigatori di costumi e malefatte governative che solo fino a qualche minuto prima hanno contribuito a realizzare. Terminator mediatici addestrati a raccogliere consensi in nome dell’onestà, della legalità, della italianità.

Anche se scendono dalle valli padane e nell’ampolla sacra sostituiscono l’acqua del Po con l’olio di ricino.

Tuttavia, se ciò servisse a rivendicare una presunta purezza, ci sarebbe comunque poco da rallegrarsene; se sulle macerie della democrazia la mala-politica edifica la sua roccaforte non ci si può sfilare dalle proprie responsabilità. Una opposizione sociale seria e credibile deve affrontare ma soprattutto cercare di risolvere questa contraddizione.

Troppo spesso s’indugia sull’autenticità delle proprie posizioni a scapito di uno sforzo comune da impiegare per affermare un modello di società realisticamente alternativo a quello attuale basato su diseguaglianza arroganza e iniquità.

Il capitalismo fiorisce indisturbato sul terreno della frammentazione sociale e della mancanza di partecipazione.

E si riproduce grazie anche al prezioso sostegno delle mafie.

Che lo stato dice di combattere, e che invece utilizza solo per fare propaganda.

Celebra le vittime degli attentati, e nel frattempo istituzionalizza lo sfruttamento con il Jobs Act; demolisce il welfare e lo consegna alla privatizzazione lasciando la cittadinanza in balia della propria capacità di arrangiarsi; non chiude le frontiere ma tiene aperti CIE CARA e lager similari (la malavita ringrazia). Che altro è questo, se non mafia?

Ed è forse mafia quella che ha armato la mano che ha assassinato Mario Piccolino, “l’attivista anticamorra” di Formia, secondo la formula giornalistica con cui è stata riportata la notizia. Ed è proprio nelle pieghe di questa informazione supina, di cui si parlava all’inizio, che ritroviamo il vuoto di coscienza, civica politica e professionale, che alimenta l’odio verso qualsiasi forma di diverso e relega a notizia di quart’ordine un fatto terribile come questo.

Diciamolo subito e senza tanti giri di parole: Mario Piccolino non era Roberto Saviano. Con tutto il rispetto, ovviamente, per le condizioni in cui è costretto a vivere.

E sfortunatamente per lui, Mario Piccolino non è stato ucciso da un rom o da un “extracomunitario”. Avrebbe conquistato la ribalta della cronaca.

Combatteva la sua battaglia nel quasi anonimato di un ufficio e di un blog che denunciava sistematicamente le attività della criminalità organizzata intorno al mondo delle slot machine. Un sicario è entrato nel suo ufficio e l’ha freddato.

Ha avuto anche la sfortuna d’imbattersi, per così dire, in una dimensione mediatica occupata dalla canea contro “zingari” pirati della strada e attese spasmodiche per liste di politici “impresentabili”.

Liste stilate, detto en passant, dalla Commissione Antimafia.

Mario Piccolino era quello che si potrebbe definire un onesto lavoratore della civiltà.

Non era, e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, una star della lotta alle mafie. Portava avanti la sua battaglia in una delle tante, innumerevoli, zone d’Italia in cui la camorra è ormai organica al tessuto sociale”.

Benché quasi tutto abbia minimamente a che fare con il profitto sia infiltrato da camorra e ‘ndrangheta, dal business delle slot machine alla grande kermesse della expo – che in teoria dovrebbe essere il fiore all’occhiello del paese che la ospita – la risoluzione del problema non sembra altro che affidarsi ai superpoteri di un magistrato e ai sermoni di uno scrittore-intellettuale-tuttologo venerato come fosse una divinità.

Ed è proprio questo il punto. Roberto Saviano è un totem. Il solo criticarlo, equivale a una bestemmia. Una blasfemia.

Nei grandi temi che riguardano tutte le persone indistintamente, e la mafia lo è senza alcun dubbio, ci sarebbe bisogno di laicità e non della ipocrita morale tipica della retorica cattolica-patriottarda. D’altro canto l’Italia ha bisogno di qualcuno o di qualcosa che rappresenti il bene contrapposto al male. Di un comodo rifugio dove riporre gli sguardi sempre rivolti “dall’altra parte”. Dove riporre la nostra indifferenza.

C’è un disperato bisogno di un campione, riconosciuto e indiscusso, che tranquillizzi così le nostre coscienze che si tratti di rom immigrati o mafiosi.

L’autore di Gomorra, che tanto si era fatto apprezzare prima di lasciarsi incatenare al suo ruolo di Catone dei tempi moderni, dopo aver manifestato tutto il suo sostegno allo stato d’Israele, nella sua imperterrita e impunita persecuzione del popolo palestinese, impreziosisce la sua ascesa a totally embedded schierandosi al fianco dell’amministrazione USA nell’accusare il Venezuela di essere un narcostato.

Ipse dixit. Ormai è un oracolo che lo si interroga per qualsiasi dubbio attanagli lo scibile umano, dimenticando che ha costruito il suo complicato personaggio su scopiazzature e millantate amicizie. Come quella, tristemente nota, riguardante la famiglia di Peppino Impastato.

Piccoli dettagli che non hanno impedito però all’immaginario collettivo di farne una icona. Non è importante ciò che dice e soprattutto quali siano le sue fonti, guarda caso quasi sempre quelle di potenti governi e della loro stampa asservita; l’importante è che dica qualcosa. Dovesse dire che il sole tramonta la mattina e sorge la sera, la stampa e i predicatori televisivi di ogni risma si accapiglierebbero per assicurarsene l’esclusiva.

Senza scomodare Brecht, non abbiamo bisogno di eroi. Piccoli o grandi che siano. Artificiali o autentici che si voglia. Un paese che si adopera alacremente per distruggere la scuola pubblica e i diritti di lavoratori e lavoratrici e che riempie il suo mare di corpi inermi, rende un grosso favore alle mafie di ogni origine e provenienza. Concede loro la eternità.

Anche a quelle in doppiopetto alle quali ci siamo forse troppo disinvoltamente abituati. Quelle mafie che giocano in borsa e lucrano sulla pelle dei migranti.

Il capitalismo è una montagna di merda.

M.A.

Noi puoi uccidere un’idea se la sgomberi.

Alla Scuola e Cultura Popolare di Via Nola 5 si sono presentati all’alba con ruspe tronchesi e assetto antisommossa.

L’opera di demolizione è iniziata in sordina, quando la città ancora dormiva. Come fanno i topi d’appartamento, in definitiva. Come chi deve nascondersi dalla luce del sole per non rendere pubbliche le proprie malefatte. La città dormiva ma la cittadinanza sta con gli occhi ben aperti quando si continuano a commettere ingiustizie in nome della “legalità” e della “sicurezza”. Da anni Scup promuove propone e produce spazi di libertà in un tessuto sociale sempre più lacerato, in balia di amministrazioni di centro-qualsiasicosa che non riescono a dare risposte neanche alle esigenze basilari della popolazione.

Alla mercé di palazzinari e lobbies politiche. L’autorganizzazione, la occupazione di immobili che giacciono in alcuni cimiteri sociali, perché tali sono diventate molte zone delle nostre metropoli, fa paura. Ancor più l’idea, a volte, che la sua realizzazione; che strappare ai soliti esecutori del Sacco di Roma attraenti proprietà “in disuso” da trasformare nell’ennesimo centro commerciale o nell’ennesima palazzina in mano a privati. La socialità, lo sport popolare, la cultura, non hanno diritto di cittadinanza in territori urbani dove sembrano destinati a scomparire la solidarietà e il bene comune. Prevale invece la in-cultura della diffidenza, della guerra tra poveri, del disprezzo per qualsiasi cosa suoni a “diverso”; di ogni tipo di razzismo e fascismo.

Prevale, e rischia di affermarsi, un modello di società che riproduce pari pari quello della expo milanese: una immensa vetrina che luccica e abbaglia al cui interno si consuma il rito della sepoltura di ogni tipo di diritto. Un modello di società che ricalca il modus operandi del capitalismo, che seguita imperterrito a perseguire il suo obiettivo di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite.

Le giunte che si sono susseguite in tutti questi anni, aldilà del “colore” che dovrebbe caratterizzarle, avranno forse modalità diverse ma una cosa in comune: desertificare il dissenso. Si promette per non mantenere, tagli lineari ai servizi essenziali per le persone, controllo sociale spacciato per sicurezza, totale mancanza di risposte all’emergenza abitativa, continue intimidazioni nei confronti di spazi sociali autogestiti. Gestione mafiosa della cosa pubblica, mafia negli appalti. C’è una sola occupazione, illegale illegittima e realmente pericolosa, che bisognerebbe sgomberare; quella del Mondo di Mezzo sugli scranni del potere di questa città.

Per farlo c’è bisogno di una opposizione sociale che mantenga al suo interno le tante realtà che la animano, e tra innumerevoli difficoltà per un generale impoverimento culturale ancorché economico, e che invece sono diventate target per la voracità neoliberista e per i neo-asfaltatori che la la sostengono e l’alimentano.

Totale solidarietà a Scup!. Non si uccide una idea se la sgomberi.

Associazione Italia-Nicaragua;

Autorecupero SanTommaso;

Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana – “Caracas ChiAma”;

Spazio Oxygene;

 

S.CU.P-web

 

I GIGANTI AGRICOLI OCCIDENTALI SI ACCAPARRANO L’UCRAINA

Frederic Mousseau  Direttore delle Politiche all’Oakland Institute

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Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea annunciavano una nuova serie di sanzioni contro la Russia nella metà del dicembre dello scorso anno, l’Ucraina riceveva 350 milioni di dollari in aiuti militari da parte degli USA, arrivati subito dopo un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari approvato nel marzo 2014 dal Congresso degli Stati Uniti. Il maggior coinvolgimento dei governi occidentali nel conflitto in Ucraina è un chiaro segnale della fiducia nel consiglio stabilito dal nuovo governo durante i primi giorni di dicembre.

Questo nuovo governo è più unico che raro nella sua specie, dato che tre dei suoi più importanti ministri sono stranieri a cui è stata accordata la cittadinanza Ucraina solo qualche ora prima di incontrarsi per questo loro appuntamento. Il titolo di Ministro delle Finanze è andato a Natalie Jaresko, una donna di affari nata ed educata in America, che lavora in Ucraina dalla metà degli anni ’90, sovraintendente di un fondo privato stabilito dal governo US come investimento nel Paese. Jaresko è anche Amministratore Delegato dell’Horizon Capital, un’azienda che amministra e gestisce svariati investimenti nel Paese.

Per strano che possa sembrare, questo appuntamento è in linea con ciò che ha tutta l’aria di essere una acquisizione dell’economia ucraina da parte dell’occidente. In due inchieste – “La Presa di Potere delle Aziende sull’Agricoltura Ucraina” e “Camminando dalla Parte dell’Ovest: La Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale nel Conflitto Ucraino” – l’Oakland Institute ha documentato questa presa di potere, in particolarmente evidente nel settore agricolo. Un altro fattore importante nella crisi che ha portato alle proteste mortali ed infine all’allontanamento dagli uffici del president Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, è stato il suo rifiuto di un patto dell’Associazione UE, volto all’espansione del commercio e ad integrare l’Ucraina alla UE, un patto legato ad un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale.

Dopo la dipartita del presidente e l’installazione di un governo pro-occidente, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in atto un programma di riforme come condizione a questo prestito, allo scopo di incrementare gli investimenti privati nel Paese. Il pacchetto delle misure adottate include la fornitura pubblica di acqua ed energia e, ancor più importante, si rivolge a ciò che la Banca Mondiale identifica col nome di “radici strutturali” dell’attuale crisi economica esistente in Ucraina, con un occhio in particolare all’alto costo del generare affari nel paese. Il settore agricolo ucraino è stato un obiettivo primario per gli investitori stranieri ed è quindi logicamente visto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale come un settore prioritario da riformare. Entrambe le istituzioni lodano la prontezza del nuovo governo nel seguire i loro suggerimenti.

Ad esempio, il piano d’azione della riforma agraria guidata dall’occidente nei confronti dell’Ucraina include la facilitazione nell’acquisizione di terreni agricoli, norme e controlli sulle fabbriche e sulla terra, e la riduzione delle tasse per le aziende e degli oneri doganali. Gli interessi che gravitano intorno al vasto settore agricolo dell’Ucraina, che è il terzo maggior esportatore di mais ed il quinto di grano, non potrebbero essere più alti. L’Ucraina è nota per i suoi ampi appezzamenti di suolo scuro e ricco, e vanta più di 32 milioni di ettari di terra fertile ed arabile, l’equivalente di un terzo dell’intera terra arabile di tutta l’Unione Europea. La manovra per il controllo sul sistema agricolo del paese è un fattore decisivo nella lotta che sta avendo luogo negli ultimi anni tra occidente ed oriente, fin dalla Guerra Fredda.

La presenza di aziende straniere nell’agricoltura ucraina sta crescendo rapidamente, con più di 1.6 milioni di ettari acquistati da compagnie straniere per scopi agricoli negli ultimi anni. Sebbene Monsanto, Cargill e DuPont siano in Ucraina per parecchio tempo, I loro investimenti nel paese sono cresciuti in modo significativo in questi ultimi anni. Cargill, gigante agroalimentare statunitense, è impegnato nella vendita di pesticidi, sementi e fertilizzanti ed ha recentemente espanso i suoi investimenti per acquistare un deposito di stoccaggio del grano, nonchè una partecipazione nella UkrLandFarming, il maggiore agrobusiness dell’Ucraina.

Similarmente, la Monsanto, altra multinazionale Americana, era già da un pò in Ucraina, ma ha praticamente duplicato il suo team negli ultimi tre anni. Nel marzo 2014, appena qualche settimana dopo la destituzione di Yanukovych, l’azienda investì 140 milioni nella costruzione di un nuovo stabilimento di sementi in Ucraina. Anche la DuPont ha allargato i suoi investimenti annunciando, nel giugno 2013, la volontà di investire anch’essa in uno stabilimento di sementi nel paese. Le aziende occidentali non hanno soltanto preso il controllo su una porzione redditizia di agribusiness e alter attività agricole, hanno iniziato una vera e propria integrazione verticale nel settore agricolo, estendendo la presa sulle infrastrutture e sui trasporti.

Per dire, la Cargill al momento possiede almeno Quattro ascensori per silos e due stabilimenti per la lavorazione dei semi di girasole e la produzione di olio di girasole. Nel dicembre 2013 l’azienda ha acquistato il “25% + 1% condiviso” in un terminal del grano nel porto di Novorossiysk, nel Mar Nero, terminal con una capacità di 3.5 milioni di tonnellate di grano all’anno. Tutti gli aspetti della catena di fornitura dell’Ucraina Agricola – dalla produzione di sementi ed altro, all’attuale possibilità di spedizione di merci fuori dal paese – stanno quindi incrementando sotto il controllo dei colossi occidentali.

Le istituzioni europee ad il governo degli US hanno attivamente promosso questa espansione. Tutto è iniziato con la spinta per un cambiamento di governo quando il fu presidente Yanukovych era visto come un filorusso, manovra ulteriormente incrementata, a cominciare dal febbraio 2014, attraverso la promozione di un’agenda delle riforme “pro-business”, come descritto dall’US Segretario del Commercio Penny Pritzker durante il suo incontro con il Primo Ministro Arsenly Yatsenyuk nell’ottobre 2014.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno lavorando duramente, mano nella mano, per prendere possesso dell’agricoltura ucraina. Sebbene l’Ucraina no permetta la produzione di coltivazioni geneticamente modificate (OGM), l’Accordo Associato tra UE e l’Ucraina, che accese il conflitto che poi espulse Yanukovych, include una clausula (articolo 404) che impegna entrambe le parti a cooperare per “estendere l’uso delle biotecnologie” all’interno del paese.

Questa clausula è sorprendente, dato che la maggior parte dei consumatori europei rifiuta l’idea delle coltivazioni OGM. Ad ogni modo, essa crea un’apertura in grado di portare I prodotti OGM in Europa, un’opportunità tanto desiderata dai grandi colossi agroalimentari, come ad esempio Monsanto. Aprendo l’Ucraina alle coltivazioni OGM si andrebbe contro la volontà dei cittadini europei, e non è chiaro come questo cambiamento potrebbe portare migliorie alla popolazione ucraina.

Allo stesso modo non è chiaro come gli ucraini beneficeranno di questa ondata di investimenti stranieri nella loro agricoltura, e quale sarà l’impatto che questi ultimi avranno su sette milioni di agricoltori locali.
Alla fine, una volta che si distoglierà lo sguardo dal conflitto nella parte est “filorussa” del paese, I cittadini ucraini potrebbero domandarsi cosa ne è rimasto della capacità del paese di controllare e gestire l’economia e le risorse a loro proprio beneficio. Quanto ai cittadini statunitensi ed europei, alla fine si sveglieranno dalle retoriche sulle aggressioni russe e sugli abusi dei diritti umani, e contesteranno il coinvolgimento dei loro governi nel conflitto ucraino?

 

Lima, l’asimmetria Nord-Sud inquina l’atmosfera

di Geraldina Colotti per il Manifesto

 

Conferenza delle parti sul clima. Prolungata per mancanza d’accordo la Cop20

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Li hanno messi tutti nella stessa barca: tutti i lea­der mon­diali delle grandi potenze, pre­senti alla Con­fe­renza dell’Onu sul clima (Cop20), in corso a Lima, in Perù. Pupazzi di car­tone che spin­gono il pia­neta verso l’abisso: il primo mini­stro austra­liano Tony Abbott, il pre­si­dente Usa Barack Obama, il cinese Xi Jin­ping, il pre­mier cana­dese Ste­phen Har­per, l’indiano Naren­dra Modi, il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin e il primo mini­stro giap­po­nese Shinzo Abe. A mar­gine della Cop20, i movi­menti hanno mani­fe­stato e discusso. Hanno mar­ciato in difesa della Madre terra. E hanno con­se­gnato una pro­po­sta «a nome degli sfrut­tati e degli oppressi de mondo, messi a mar­gine da un sistema eco­no­mico e cul­tu­rale che li sot­to­mette a set­tori raz­zi­sti, fon­da­men­ta­li­sti, maschi­li­sti e padro­nali inte­res­sati a con­ser­vare il modello capi­ta­li­sta». L’Alba dei movi­menti, un’articolazione che ha a Lima un con­tro­canto isti­tu­zio­nale: quello dell’Alba-Tcp, l’Alleanza boli­va­riana per i popoli delle Americhe-Trattato di com­mer­cio dei popoli, i cui rap­pre­sen­tanti sono impe­gnati nel nego­ziato. Un asse tra­sver­sale che oggi com­pie 10 anni e che pro­pone un’integrazione inno­va­tiva e soli­dale: sul piano poli­tico, eco­no­mico, edu­ca­tivo, ambien­tale e in dia­logo per­ma­nente con i movi­menti sociali.

La Con­fe­renza avrebbe dovuto con­clu­dersi venerdì, ma non si è tro­vato accordo: mal­grado i discorsi degli Usa e l’intesa rea­liz­zata a novem­bre tra Washing­ton e Pechino. E mal­grado la con­sa­pe­vo­lezza ormai dif­fusa che la soglia dell’allarme sulle con­se­guenze del riscal­da­mento cli­ma­tico stia per rag­giun­gere un punto di non ritorno. Così le discus­sioni sono andate avanti e dovreb­bero con­clu­dersi oggi. «Ci siamo quasi, ma abbiamo biso­gno di un ultimo sforzo», ha detto Manuel Pul­gar, mini­stro dell’Ambiente peru­viano. E i col­lo­qui sono con­ti­nuati a porte chiuse nella sede del Pen­ta­go­nito, il mini­stero della Difesa. Fuori, si veri­fi­cava intanto un auto­gol di Green­peace che, con uno dei suoi blitz ha scritto uno slo­gan per le ener­gie rin­no­va­bili su un sito archeo­lo­gico con­si­de­rato patri­mo­nio dell’umanità. Il governo peru­viano ha denun­ciato il gruppo ambien­ta­li­sta e l’incidente non è rien­trato nono­stante le scuse uffi­ciali dei respon­sa­bili dell’organizzazione.

I rap­pre­sen­tanti dei 195 paesi devono licen­ziare un testo-base per la pros­sima Con­fe­renza sul clima, che si terrà a Parigi nel 2015 e che dovrebbe sosti­tuire il Pro­to­collo di Kyoto. Secondo il parere degli esperti, per con­te­nere l’aumento del riscal­da­mento glo­bale a 2°C, occorre ridurre da qui al 2050 le emis­sioni di gas a effetto serra (Ges) dal 40 al 70%: prin­ci­pal­mente quelle di CO2. Il docu­mento di Lima dovrebbe con­te­nere gli impe­gni con­creti dei sin­goli paesi. L’asimmetria tra nord e sud e le alleanze poli­ti­che che la gover­nano com­pli­cano però le discus­sioni, e disat­ti­vano i buoni pro­po­siti pro­nun­ciati anche quest’anno.
La Con­ven­zione Onu sul clima, del 1992, rico­no­sce «una respon­sa­bi­lità comune, ma dif­fe­ren­ziata» in base a due cate­go­rie di paesi, quelli svi­lup­pati e quelli in via di svi­luppo. E allora, come deci­dere i sin­goli con­tri­buti, come tro­vare regole comuni per valu­tare ina­dem­pienze e risul­tati? I paesi afri­cani, che con­cor­rono alle emis­sioni solo in minima parte (circa il 3%), chie­dono pre­cise garan­zie. E la que­stione degli aiuti al Sud, insieme a quella dell’equità, resta cen­trale. Secondo un rap­porto Onu, nel 2050 le spese neces­sa­rie per pro­teg­gere le popo­la­zioni dei paesi in via di svi­luppo dai rischi legati al cam­bia­mento cli­ma­tico potreb­bero arri­vare fino ai 500 miliardi di dol­lari all’anno: sem­pre­ché si ottenga il risul­tato di limi­tare a 2°C l’aumento del riscal­da­mento glo­bale: «I costi per l’adattamento potreb­bero arri­vare a 150 miliardi di dol­lari all’anno nel 2025–2030 e tra i 250 e i 500 miliardi nel 2050», ha indi­cato il Pnue, il Pro­gramma delle Nazioni unite per l’ambiente.

Le azioni d’adattamento mirano a pro­teg­gere le popo­la­zioni e le infra­strut­ture dall’impatto del cam­bia­mento cli­ma­tico come l’aumento del livello degli oceani, le inon­da­zioni o le sic­cità. Tra i temi più dif­fi­cili del nego­ziato, c’è il finan­zia­mento di que­ste spese, insieme a quello per ridurre i gas a effetto serra. I paesi del Sud chie­dono alle grandi potenze di rispet­tare gli impe­gni presi: ero­gare i 100 miliardi di dol­lari d’aiuto annuale da qui al 2020; ed esi­gono che per il futuro accordo, ope­ra­tivo dal 2020, i paesi svi­lup­pati fis­sino sca­denze e quote pre­cise quanto ai finan­zia­menti che inten­dono garan­tire al Sud per aiu­tarlo a ridurre le emis­sioni, soste­nerlo nei disa­stri ine­vi­ta­bili e con­tri­buire al loro svi­luppo sostenibile.

I paesi dell’Alba (il blocco regio­nale ideato da Cuba e Vene­zuela, e inte­grato da Boli­via, Ecua­dor, Nica­ra­gua, Anti­gua e Bar­buda, Domi­nica, Saint Vin­cent e Gre­na­dine) hanno par­lato con una sola voce. Nei 9 paesi abi­tano oltre 74 milioni di per­sone. Su una super­fi­cie totale di 3 milioni di kmq, il 49,5% è costi­tuito da fore­ste, il 6,73% da terra col­ti­vata. L’inedita inte­gra­zione regio­nale mette al cen­tro «lo svi­luppo inte­grale», l’uguaglianza sociale, il buen vivir e l’autodeterminazione dei popoli. «In que­sto accordo, si devono inclu­dere i 23 milioni di abi­tanti di Tai­wan così come lo Stato di Pale­stina. Ma se, in base alle stime della Cepal, solo per le com­pen­sa­zioni di Nica­ra­gua e Sal­va­dor ser­vono 10 miliardi, come può il Fondo verde di 100 miliardi far fronte alle neces­sità di oltre 130 paesi in via di svi­luppo?» ha detto il mini­stro Paul Oquist, rap­pre­sen­tante del Nica­ra­gua. «Per for­tuna – ha aggiunto – non abbiamo atteso le solu­zioni da que­sta Con­ven­zione. Dopo il ritorno al potere del pre­si­dente Daniel Ortega, con i fondi nazio­nali e gra­zie all’Accordo petro­li­fero di Alba-Petrocaribe, il governo ha costruito altre 1.000 case per rifu­giati cli­ma­tici a seguito di ricor­renti inon­da­zioni. E siamo pas­sati dal 25% di ener­gia rin­no­va­bile nel 2007 al 51% nel 2013, e arri­ve­remo al 90% nel 2020». Dal Nica­ra­gua, alla Boli­via all’Ecuador, anche i paesi dell’Alba hanno le loro con­trad­di­zioni, sia per le grandi opere che per i rischi insiti nell’economia estrat­ti­vi­sta. Dal “socia­li­smo del XXI secolo” arriva però la cri­tica più forte al modello di svi­luppo che sta por­tando il pia­neta alla rovina. Ha detto ancora Oquist: «Il livello di con­cen­tra­zione a cui è arri­vato il potere mili­tare, poli­tico, eco­no­mico e finan­zia­rio si basa su un modello ege­mo­nico di pro­du­zione, con­sumo e finanza inso­ste­ni­bile, entrato in crisi nel 2007–2009. Le solu­zioni richie­ste dall’umanità impli­cano una tra­sfor­ma­zione del modello e un suo superamento».

E men­tre, a nome della Boli­via (che pre­siede il gruppo G77), il pre­si­dente Evo Mora­les ha chie­sto ai paesi svi­lup­pati «di non men­tire e di impe­gnarsi dav­vero», il Ver­tice dei popoli e i movi­menti dell’Alba hanno chie­sto che nell’accordo venga inse­rita la denun­cia con­tro la mul­ti­na­zio­nale Chevron-Texaco, per i danni inflitti all’Ecuador. Nella loro dichia­ra­zione, i movi­menti esi­gono che i paesi svi­lup­pati rico­no­scano le respon­sa­bi­lità verso i popoli del Sud e sal­dino il debito sto­rico ed eco­lo­gico con­tratto con quei paesi: «Nes­suna azione per fer­mare il cam­bia­mento cli­ma­tico sarà effi­cace – scri­vono – se non si pro­muo­vono poli­ti­che pub­bli­che in favore della pic­cola agri­col­tura fami­gliare e con­ta­dina. Con­ti­nue­remo nella lotta per cam­biare il sistema… non il clima».

Alba, dieci anni d’impegno contro le guerre

di Marinella Correggia per il Manifesto

Alba X Aniversario

I mem­bri dell’Alleanza Alba, e soprat­tutto Cuba e Vene­zuela che la fon­da­rono il 14 dicem­bre 2004, hanno una con­so­li­data sto­ria di impe­gno con­tro le guerre di aggres­sione (pro­se­cu­zione dell’imperialismo con altri mezzi e forma più estrema di distru­zione umana e ambien­tale). Non c’è ancora l’Alba quando Cuba e Nica­ra­gua si oppon­gono alla prima guerra per il petro­lio con­tro l’Iraq. Il 29 novem­bre 1990 il Con­si­glio di sicu­rezza Onu approva la riso­lu­zione 678, auto­riz­zando la cosid­detta «ope­ra­zione di poli­zia inter­na­zio­nale» di Bush padre e alleati (Ita­lia com­presa). Gli unici a resi­stere sono due mem­bri di turno, non per­ma­nenti: Cuba vota con­tro, Yemen si astiene. L’ultimo ten­ta­tivo nego­ziale vede pro­ta­go­ni­sta il pre­si­dente san­di­ni­sta Daniel Ortega. Fra gen­naio e feb­braio 1991 l’Iraq è raso al suolo. Nel paese ridotto alla fame dall’embargo, lavo­rano gra­tis medici cubani. Ago­sto 2000: Hugo Chá­vez diven­tato pre­si­dente del Vene­zuela è il primo capo di Stato a recarsi a Baghdad.

Il 5 marzo 1999 Cuba con­danna la «ingiu­sti­fi­cata aggres­sione con­tro la Jugo­sla­via»: i bom­bar­da­menti Nato su Ser­bia e Kosovo sono ini­ziati da pochi giorni. Fidel invita gli «jugo­slavi» a «resi­stere, resi­stere e resi­stere». Anni dopo, il 21 feb­braio 2008, Hugo Chá­vez spiega che il Vene­zuela non rico­no­scerà un Kosovo indi­pen­dente, una seces­sione nata dalle bombe dell’impero.
Il 23 set­tem­bre 2001 Fidel Castro avverte che attac­chi mili­tari Usa in Afgha­ni­stan potreb­bero avere con­se­guenze cata­stro­fi­che. Cuba sostiene che una solu­zione paci­fica è pos­si­bile e che l’Assemblea dell’Onu può con­durre la lotta al ter­ro­ri­smo senza bombe. Pochi giorni dopo piove morte sulle ter­rose casu­pole afghane. Guerra infi­nita: anni dopo, nel 2009, Fidel Castro scrive che il ritiro del Nobel per la pace da parte di Barack Obama è stato un «atto cinico».

Nel 2003, alla vigi­lia della nuova guerra annun­ciata con­tro l’Iraq, quasi tutti gli amba­scia­tori e rela­tivi staff fug­gono di gran car­riera. Non i cubani. L’ambasciatore e parte dello staff riman­gono sotto le bombe anglo-statunitensi aiu­tate dall’Italia. L’opposizione anche da parte del Vene­zuela è vee­mente: anni dopo all’Assemblea dell’Onu, Chá­vez para­go­nerà George W. Bush al dia­volo che puzza di zolfo. Nel 2009 l’Ecuador non rin­nova agli Usa la base mili­tare di Manta.
Il 2011 vede in par­ti­co­lare Vene­zuela, Cuba e Nica­ra­gua pro­ta­go­ni­sti di uno sforzo nego­ziale per impe­dire la guerra della Nato con­tro la Libia. Dicono molti no nel con­te­sto dell’Onu. Il 3 marzo Fidel Castro chiede al mondo di soste­nere la pro­po­sta nego­ziale per una solu­zione paci­fica, avan­zata da Chá­vez e appog­giata dai mem­bri dell’Alba (e da 40 par­titi della sini­stra lati­noa­me­ri­cana), accet­tata dalla Libia. Padre Miguel D’Escoto del Nica­ra­gua san­di­ni­sta accetta di rap­pre­sen­tare all’Onu la Jama­hi­riya libica, per­ché all’ambasciatore man­dato da Tri­poli gli Usa non hanno dato il visto. Sotto le bombe dell’ennesima guerra con pre­te­sti uma­ni­tari (Fidel la defi­ni­sce «un cri­mine mostruoso»), la vene­zue­lana Tele­sur è fra i pochi media che si disco­stano dall’esaltazione della guerra. Il pre­si­dente boli­viano Evo Mora­les chiede che Obama resti­tui­sca il Nobel. Gli amba­scia­tori di Cuba e Vene­zuela restano a Tri­poli durante l’aggressione.

L’ingerenza occi­den­tale e petro­mo­nar­chica che ha tra­sfor­mato la crisi in Siria in una guerra deva­stante è più volte denun­ciata da Cuba, Vene­zuela, Boli­via e Nica­ra­gua che, all’Assemblea dell’Onu come al Con­si­glio dei diritti umani a Gine­vra, oppon­gono il loro voto a riso­lu­zioni pro­po­ste da Occi­dente e paesi del Golfo, gli «amici della guerra» che «non danno spa­zio ad alcuna solu­zione poli­tica, non pre­sen­tano prove, vio­lano il diritto inter­na­zio­nale e si pre­pa­rano a pro­vo­care più morte e distru­zione». E men­tre Europa e Usa impon­gono san­zioni al paese, il Vene­zuela manda car­bu­rante — come agli sta­tu­ni­tensi poveri.

Lotta per la casa, lotta di classe. 21 marzo 1958 – 13 dicembre 2014

La legge Togni (21-3-1958) che prevedeva la vendita di tutto il patrimonio pubblico di alloggi a favore degli inquilini passata quasi all’ unanimità, anche con l’appoggio delle sinistre, produceva tanti piccoli proprietari di casa dividendo gli inquilini in grado di acquistare un appartamento da un’altra parte, più povera, che non poteva nemmeno disporre del milione, milione e mezzo di lire necessario per diventare proprietaria dell’appartamento.

Si costituiva così uno strato relativamente soddisfatto, sicuro almeno di disporre di un alloggio per tutta la vita e di trasmetterlo ai figli: l’operazione democristiana ebbe dunque un significato di ampia portata che si inseriva in quello analogo operato nello stesso periodo o poco prima con gli enti di riforma agraria (legge Segni).

In realtà ci furono delle resistenze a questa legge, ma soprattutto a livello di base. Nelle sezioni del PCI e del PSI, nelle assemblee di rione la parte più cosciente della classe operaia denunciò quello che veniva realizzato con questa legge: ci si disfaceva di un patrimonio ottenuto con i contributi di tutti i lavoratori, e che doveva essere a disposizione della generalità dei lavoratori invece che del libero mercato e, dunque, della proprietà privata; il fatto che questi milioni di vani (di tanto si tratta) restassero in affitto costituiva per il resto del mercato un enorme calmiere che agiva da freno al lievitare dei prezzi della casa.

Ma era proprio per questo che la legge (che porta il nome di una delle più sporche figure democristiane) venne varata: per dividere i lavoratori e per liberare il campo alla speculazione immobiliare. Il PCI e il PSI su questa legge non presero una posizione netta e di massa; nelle aziende solo poche avanguardie riuscirono a coinvolgere nella discussione le commissioni interne.

A Firenze le assemblee poco a poco si svuotarono, i comitati di inquilini non ressero di fronte alla “spontanea” aspirazione di altri decisi ad acquistarsi la casa dove vivevano.

Le vendite frazionate si estesero perciò a buona parte del patrimonio pubblico (Ina Casa – Case Fanfani ecc.); i comitati si sciolsero e con essi l’ultima iniziativa a livello territoriale che i partiti riformisti avessero preso con le caratteristiche di “movimento di massa” e di “antagonismo rispetto alla legge di mercato”.

Tratto da “Le lotte per la casa a Firenze” di Mattei – Morini – Simoni Ed. Savelli 1975