13 giugno 2011. Passaggio storico. Storico. E allora, nel pieno di questo alieno clima di meritata euforia, concediamoci di parafrasare un Umberto Eco d’annata. E ancora, di passaggio, per il “centrodestra” questi 4 SI ripetuti milioni di volte sono una dannata eco.
Voglio però parlare d’altro, che poi tanto altro non è.
La vittoria dei referendum, è anche la vittoria di Carlo Giuliani. Quest’anno sono dieci anni da Genova; non si celebra. Si fa Memoria. Quella mattanza di regime, l’On. Fini in cabina di regia, aveva l’obiettivo di demonizzare/demolire l’unica istanza di democrazia possibile. Quella dal basso, senza deleghe e senza rappresentatività. Se non quella della propria autodeterminazione. Infatti, i partiti politici del “centrosinistra” accorsero tardivamente, a recinti spalancati e buoi in fuga. La politica della società corre sempre più in fretta della società della politica. Una propone, l’altra dispone. Seattle prima, Genova poi, stavano iniziando la semina di un pensare a venire; stavano dimostrando di quanto sia davvero unico il pensiero di fronte al pensiero unico. L’arrembaggio dei movimenti si sarebbe dovuto scontrare però con la ottusità della reazione e con quella mortifera dei manganelli di ultima generazione. E delle pallottole. Il pianeta arrivava allora all’auge del mercato, tutto si sarebbe convertito in merce e la merce avrebbe governato il tutto. Il trionfo dei cosiddetti accordi commerciali rimpinguava le banche della avenue mentre stritolava le popolazioni delle banlieu. Il mondo scopriva la finanza, la finanza denudava il mondo. Questo potere impalpabile che si era impossessato delle aule parlamentari governava senza mandato, regnava senza pronunciare parola mentre le voci ribelli di milioni e milioni di persone scontavano l’afonia della partecipazione. Ma di lì a poco il protagonismo degli eterni esclusi avrebbe preso il sopravvento: coscienza, conoscenza, organizzazione. Al di fuori degli eterni protagonisti che recitano una sceneggiatura senza mai un happy end.
La scalata al quorum di qualche giorno fa parte proprio da quelle funeste giornate genovesi, il germe del cambiamento prende vita da quelle profonde analisi e dal j’accuse galattico indirizzato ai potenti della terra ed ai loro servili comprimari. Forse inconsapevolmente, ma determinatamente in fieri, quel movimento così eterogeneo contestava la “globalizzazione” ma già parlava di Beni Comuni. Le risorse della terra non stanno sul mercato. Così come il sangue versato perché il mercimonio non avvenisse, in nome di nessun finto progresso. La Memoria è un bene comune.
Il successo dei referendum ha sancito dei punti di non ritorno, quelli strettamente relativi ai quesiti, ma ha anche significato una inequivocabile vittoria politica. Nel senso più alto e nobile del termine. Ha messo all’angolo un governo agonizzante, ma prima di tutto xenofobo, guerrafondaio, intollerante, osceno, usuraio, retrogrado, affamatore, bizantino. Il tutto rappresentato al meglio dal suo più alto rappresentante. Il berlusconismo è quanto mai pericoloso perché sopravvive al suo “insigne” creatore, e per quanto si faccia fatica ad ammetterlo ha rappresentato, nel momento di sua massima espansione che comunque stiamo ancora vivendo, una novità culturale da cui non si può prescindere. In senso gramsciano, si passi l’espressione, ha esercitato una egemonia, rozza e medievale quanto si vuole, che forse solo ora si comincia a scalfire. La fibra menzognera di cui si è nutrito il tessuto sociale italiano negli ultimi anni ha generato un monstre che coniuga televisione e sfruttamento, capitale e decadenza, salò e modernismo. La sberla è quindi diretta ad un modello culturale vincente che di vincente ha solo il culto della sopraffazione, mentre la battaglia referendaria ha reso evidente quanto ancora sia vivente il senso di solidarietà. Un referendum di resistenza. Un referendum di liberazione. Dal cappio di un liberismo sfrenato e disumano, ma anche dalle briglie di una opposizione inesistente, asservita e spesso complice delle criminali politiche governative. Ma ancor più incapace di leggere ed interpretare un alfabeto sociale che dagli inferi della precarietà e della esclusione riesce invece ad autorganizzarsi e tramutarsi in soggetto vitale. Di reale cambiamento. Di reale denuncia. Di reale alternativa. Le arrampicate sul carro del vincitore dimostrano una volta di più lo scollamento tra politicheria e bisogni concreti, una patetica autorappresentazione di “vicinanza” alla cittadinanza nel momento in cui ventisette milioni di persone decidono di riappropriarsi del diritto di decidere. Sono queste le vere “primarie”.
Questo scenario ripropone un meccanismo di mutuo sostentamento del tutto disinteressato alle istanze che provengono dal cuore di una società; e la battaglia sull’acqua, soprattutto, ne rappresenta le vene e le arterie. I comitati che quasi dal nulla, e nel nulla della informazione da prima serata si sono costituiti, segnano un punto epocale a favore della partecipazione. Spesso si dimentica l’importanza del linguaggio, in questa (lunga, lunghissima) stagione in cui segni parole e meta-significati hanno un valore imprescindibile. Alla vacuità del messaggio pubblicitario – inteso in tutta la sua capacità di applicazione, “politica” in primis – che ha sacrificato il bisogno per il desiderio, si contrappone la ricchezza delle parole: Bene Comune è entrato di prepotenza nel forziere del nostro dizionario.
Da troppi anni assistiamo al posticcio annuncio della genesi di una nuova politica, di una nuova società, di una nuova giustizia, di una nuova economia, di una nuova libertà. In realtà non si fa altro che alimentare l’apocalisse del pensiero. Alla libera fonte della indignazione si abbeverano invece le idee giuste.
Fuori gli apocalittici, largo agli indignati.
M.A.