Telecronaca di una finale annunciata

jenny257x250Cronache. Cronaca nera, cronaca calcistica. Decine di migliaia di tifosi defluiscono verso lo stadio Olimpico. Finale di coppa Italia, fine della coppa. Italia alla fine. Un parcheggio zona stadio. Un’aggressione. Scontri. Feriti. Bombe carta. Il giorno dopo poi bombe sulla carta. Stampata. Scontri. Qualcuno spara. Qualcuno cade. Ferito. Quasi morto. L’aggressore (gli aggressori?) scappa. Non prima di aver dato fuoco alle polveri. Non prima di essere stato a sua volta ferito. Da un parcheggio all’ospedale. La massa dei tifosi continua a defluire verso lo stadio. Che si riempie. Anche di giornalisti, di personalità istituzionali. Di starlettes conosciute e facce patinate.

Sorrisi occhiolini strette di mano. Vigorose. Ammiccanti. Come i baci tra mafiosi. La mafia a una partita di calcio? Tra non molto irromperà sulla scena. Basta aspettare. Di fuori, la tragedia. Ambulanze a sirene spiegate. Tra bandiere e inni. Tra bandiere e unni. Barbaro: straniero. Noi gli stranieri li trattiamo da par nostro. Se non annegano prima, benvenuti nel paradiso dello sfruttamento. Gli stranieri quelli ricchi, no. Benvenuti nel paradiso dello sfruttamento. Il tifoso colpito da arma da fuoco versa in gravissime condizioni. L’episodio non ha nulla a che vedere con lo sport. Le curve intonano canti gregoriani. Le due squadre contendenti hanno fatto visita al papa. Si avvicina l’ora del calcio d’inizio. Lo stadio è gremito. Le voci si rincorrono. Incontrollate. Le notizie? Quelle ristagnano nell’acquitrino della informazione. Chi informa chi dovrebbe informare? La questura. Il questore a quest’ora è in questura. Dice: “Tutto sotto controllo”. Gli elicotteri volano in alto. A terra volano le cingiate. Non ha nulla a che vedere con lo sport. Che è divertimento, stare insieme, passione. Non lo dice il questore ma chi dal questore è informato. Il tifoso ferito in gravissime condizioni. Un alterco con un commerciante esasperato. Un fatto dunque, di cronaca nera. La cronaca vera non la sa nessuno. Chi la sapesse, non ha diritto di fare cronaca. La cronaca va e passa e con il tempo. Etimologicamente, non c’è cronaca senza tempo. 

Il tempo scorre, la partita non ha inizio. Le telecamere ora si concentrano sullo stadio. Ora c’è meno cronaca ma più teatro. Triplo salto carpiato culturale. Ionesco, vale a dire il teatro dell’assurdo. Ormai è ufficiale, la persona ferita ricoverata in ospedale è in gravissime condizioni. Ormai è ufficiale, la partita non inizierà all’orario previsto. Sullo sfondo del palcoscenico, dove imperversano le capriole dei telecronisti, vengono proiettate le immagini. Scontri feriti agenti in tenuta antisommossa. Tutto questo non ha nulla a che vedere con lo sport. Lo sport però ha qualcosa a che vedere con la sommossa. Cominciano infatti a muoversi gli attori. Quelli protagonisti diventano comprimari, quest’ultimi protagonisti. La tribuna delle autorità ribolle d’immobilismo. Facce più annoiate che indignate. Mi faccio una prima domanda: dove sta la sommossa? I conciliaboli diventano numerosi. Quasi infiniti. D’altronde è un cliché da quelle parti. Si moltiplicano i gruppetti. Si coprono le bocche. Telecamere in agguato. Questa è una democrazia che si basa sul pluralismo delle testate giornalistiche e sul monopolio della informazione. Il questore annuncia che la partita si deve giocare. Motivi di ordine pubblico. Mi viene in mente l’Heysel. Il famoso derby interrotto dieci anni fa viene più volte ricordato. Quanto successo però non ha nulla a che vedere con lo sport. Un fatto di cronaca nera. Criminali, non tifosi. I tifosi gremiscono gli spalti. Una parte ha ammainato bandiere e striscioni in segno di protesta. Il tifoso ferito lotta tra la vita e la morte. Arriva la notizia che anche l’aggressore è ricoverato. Un’altra domanda mi scuote il petto: perché non sono andato vedere la mostra di Frida Kahlo? O al cinema? No, meglio il teatro dell’assurdo. Ho trovato la risposta ma il petto si agita ancora. Non si dà il calcio d’inizio, inizia la commedia. Stacco sulla tribuna delle autorità. Visi distesi fino a quando non si è inquadrati. Sbigottimento, incredulità, disapprovazione. Ora si torna sul palcoscenico. Sul camposcenico. Dopo tutto, se assurdo dev’essere, che assurdo sia. C’è una squadra ma non è composta dagli undici tradizionali giocatori. Ce n’è uno soltanto, ora in qualità di ambasciatore diplomatico portavoce. Ma a chi deve parlare? Con chi deve intavolare una trattativa? Questo il questore a quest’ora ormai lo sa. Una sua nutrita delegazione di bracci destri lo accompagna verso la platea. Nervosa e gremita all’inverosimile. Ma scalpita per entrare trionfalmente in scena. Infatti ora il camposcenico è tutto per loro. La delegazione, sotto forma di squadra, prende finalmente a contatto con gli ex comprimari diventati protagonisti. Se lo spettacolo inizierà, dipende solo da noi. La delegazione ascolta annuisce approva. Un vigile del fuoco, lì per lavorare, guarda un po’ che assurdità, viene ferito. Da un applauso troppo focoso. A questo punto una domanda mi contorce lo stomaco. Perché le forze dell’ordine picchiano operai persone che protestano voci che dissentono uccidono gente inerme riservandosi poi calorosi applausi? È più, ovviamente, che un contorcimento. È rabbia mista a ribrezzo per la meschinità nella quale questo paese si trova ormai quotidianamente impaludato. Per il servilismo con il quale viene raccontato. Sono pugni chiusi di fronte a uno spettacolo che rivela un’antropologia così ombrosa e complicata ma così oscenamente chiara. E tutto questo il questore a quest’ora lo sa. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con lo sport. I telecronisti che fremono perché la partita abbia inizio non riescono a trovare più argomenti che possano alimentare la loro spicciola e subliminale sociologia. La macchina del sacro calcio non può certo fermarsi per un ferito per quanto in condizioni gravissime. La liturgia che molte e molti di noi ossequiamo deve avere seguito. Quel rito pagano che ha anche rappresentato la resistenza a dittature sanguinarie che ne avevano fatto un proprio orpello, è diventato ora il simulacro di una cultura popolare. Che di popolare ha solo la miseria. Di culturale la sopraffazione. La stessa cultura del capitalismo. A una partita di calcio non si partecipa. Una partita di calcio si consuma. Si consuma l’informazione. Che si barrica dietro le veline della tribuna delle autorità. Che si riflette come in un gioco di specchi deformi nella platea di quel camposcenico. La stessa che dice di combattere cancellare annichilire. In realtà se ne giova ne trae profitto e gode dei dividendi. Dividendi et impera. E questo è più reale dell’assurdo che sta andando in campo. Quella platea così rumorosa in realtà grida con voce sommessa più che da sommossa una cosa soltanto: lo stato siamo voi. Per chi pensa sia un refuso, lo ripeto. Lo stato siamo voi. Uno stato che forse non è mai nato ma che sicuramente è morto. Non riesco a farmi più domande, ma ho delle certezze, di cui ho la certezza che inquietano più delle domande. Odio il calcio, amo il pallone. Detesto lo stato, adoro il popolo. E tutto questo ha a che vedere con lo sport. Se assurdo deve essere, che assurdo sia. Il tifoso ferito è ancora gravissimo. La partita ha inizio. Telecronaca nera.

Lo stato è morto, viva lo stadio.

M.A.