Lima, l’asimmetria Nord-Sud inquina l’atmosfera
di Geraldina Colotti per il Manifesto
Conferenza delle parti sul clima. Prolungata per mancanza d’accordo la Cop20
Li hanno messi tutti nella stessa barca: tutti i leader mondiali delle grandi potenze, presenti alla Conferenza dell’Onu sul clima (Cop20), in corso a Lima, in Perù. Pupazzi di cartone che spingono il pianeta verso l’abisso: il primo ministro australiano Tony Abbott, il presidente Usa Barack Obama, il cinese Xi Jinping, il premier canadese Stephen Harper, l’indiano Narendra Modi, il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro giapponese Shinzo Abe. A margine della Cop20, i movimenti hanno manifestato e discusso. Hanno marciato in difesa della Madre terra. E hanno consegnato una proposta «a nome degli sfruttati e degli oppressi de mondo, messi a margine da un sistema economico e culturale che li sottomette a settori razzisti, fondamentalisti, maschilisti e padronali interessati a conservare il modello capitalista». L’Alba dei movimenti, un’articolazione che ha a Lima un controcanto istituzionale: quello dell’Alba-Tcp, l’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe-Trattato di commercio dei popoli, i cui rappresentanti sono impegnati nel negoziato. Un asse trasversale che oggi compie 10 anni e che propone un’integrazione innovativa e solidale: sul piano politico, economico, educativo, ambientale e in dialogo permanente con i movimenti sociali.
La Conferenza avrebbe dovuto concludersi venerdì, ma non si è trovato accordo: malgrado i discorsi degli Usa e l’intesa realizzata a novembre tra Washington e Pechino. E malgrado la consapevolezza ormai diffusa che la soglia dell’allarme sulle conseguenze del riscaldamento climatico stia per raggiungere un punto di non ritorno. Così le discussioni sono andate avanti e dovrebbero concludersi oggi. «Ci siamo quasi, ma abbiamo bisogno di un ultimo sforzo», ha detto Manuel Pulgar, ministro dell’Ambiente peruviano. E i colloqui sono continuati a porte chiuse nella sede del Pentagonito, il ministero della Difesa. Fuori, si verificava intanto un autogol di Greenpeace che, con uno dei suoi blitz ha scritto uno slogan per le energie rinnovabili su un sito archeologico considerato patrimonio dell’umanità. Il governo peruviano ha denunciato il gruppo ambientalista e l’incidente non è rientrato nonostante le scuse ufficiali dei responsabili dell’organizzazione.
I rappresentanti dei 195 paesi devono licenziare un testo-base per la prossima Conferenza sul clima, che si terrà a Parigi nel 2015 e che dovrebbe sostituire il Protocollo di Kyoto. Secondo il parere degli esperti, per contenere l’aumento del riscaldamento globale a 2°C, occorre ridurre da qui al 2050 le emissioni di gas a effetto serra (Ges) dal 40 al 70%: principalmente quelle di CO2. Il documento di Lima dovrebbe contenere gli impegni concreti dei singoli paesi. L’asimmetria tra nord e sud e le alleanze politiche che la governano complicano però le discussioni, e disattivano i buoni propositi pronunciati anche quest’anno.
La Convenzione Onu sul clima, del 1992, riconosce «una responsabilità comune, ma differenziata» in base a due categorie di paesi, quelli sviluppati e quelli in via di sviluppo. E allora, come decidere i singoli contributi, come trovare regole comuni per valutare inadempienze e risultati? I paesi africani, che concorrono alle emissioni solo in minima parte (circa il 3%), chiedono precise garanzie. E la questione degli aiuti al Sud, insieme a quella dell’equità, resta centrale. Secondo un rapporto Onu, nel 2050 le spese necessarie per proteggere le popolazioni dei paesi in via di sviluppo dai rischi legati al cambiamento climatico potrebbero arrivare fino ai 500 miliardi di dollari all’anno: sempreché si ottenga il risultato di limitare a 2°C l’aumento del riscaldamento globale: «I costi per l’adattamento potrebbero arrivare a 150 miliardi di dollari all’anno nel 2025–2030 e tra i 250 e i 500 miliardi nel 2050», ha indicato il Pnue, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente.
Le azioni d’adattamento mirano a proteggere le popolazioni e le infrastrutture dall’impatto del cambiamento climatico come l’aumento del livello degli oceani, le inondazioni o le siccità. Tra i temi più difficili del negoziato, c’è il finanziamento di queste spese, insieme a quello per ridurre i gas a effetto serra. I paesi del Sud chiedono alle grandi potenze di rispettare gli impegni presi: erogare i 100 miliardi di dollari d’aiuto annuale da qui al 2020; ed esigono che per il futuro accordo, operativo dal 2020, i paesi sviluppati fissino scadenze e quote precise quanto ai finanziamenti che intendono garantire al Sud per aiutarlo a ridurre le emissioni, sostenerlo nei disastri inevitabili e contribuire al loro sviluppo sostenibile.
I paesi dell’Alba (il blocco regionale ideato da Cuba e Venezuela, e integrato da Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Dominica, Saint Vincent e Grenadine) hanno parlato con una sola voce. Nei 9 paesi abitano oltre 74 milioni di persone. Su una superficie totale di 3 milioni di kmq, il 49,5% è costituito da foreste, il 6,73% da terra coltivata. L’inedita integrazione regionale mette al centro «lo sviluppo integrale», l’uguaglianza sociale, il buen vivir e l’autodeterminazione dei popoli. «In questo accordo, si devono includere i 23 milioni di abitanti di Taiwan così come lo Stato di Palestina. Ma se, in base alle stime della Cepal, solo per le compensazioni di Nicaragua e Salvador servono 10 miliardi, come può il Fondo verde di 100 miliardi far fronte alle necessità di oltre 130 paesi in via di sviluppo?» ha detto il ministro Paul Oquist, rappresentante del Nicaragua. «Per fortuna – ha aggiunto – non abbiamo atteso le soluzioni da questa Convenzione. Dopo il ritorno al potere del presidente Daniel Ortega, con i fondi nazionali e grazie all’Accordo petrolifero di Alba-Petrocaribe, il governo ha costruito altre 1.000 case per rifugiati climatici a seguito di ricorrenti inondazioni. E siamo passati dal 25% di energia rinnovabile nel 2007 al 51% nel 2013, e arriveremo al 90% nel 2020». Dal Nicaragua, alla Bolivia all’Ecuador, anche i paesi dell’Alba hanno le loro contraddizioni, sia per le grandi opere che per i rischi insiti nell’economia estrattivista. Dal “socialismo del XXI secolo” arriva però la critica più forte al modello di sviluppo che sta portando il pianeta alla rovina. Ha detto ancora Oquist: «Il livello di concentrazione a cui è arrivato il potere militare, politico, economico e finanziario si basa su un modello egemonico di produzione, consumo e finanza insostenibile, entrato in crisi nel 2007–2009. Le soluzioni richieste dall’umanità implicano una trasformazione del modello e un suo superamento».
E mentre, a nome della Bolivia (che presiede il gruppo G77), il presidente Evo Morales ha chiesto ai paesi sviluppati «di non mentire e di impegnarsi davvero», il Vertice dei popoli e i movimenti dell’Alba hanno chiesto che nell’accordo venga inserita la denuncia contro la multinazionale Chevron-Texaco, per i danni inflitti all’Ecuador. Nella loro dichiarazione, i movimenti esigono che i paesi sviluppati riconoscano le responsabilità verso i popoli del Sud e saldino il debito storico ed ecologico contratto con quei paesi: «Nessuna azione per fermare il cambiamento climatico sarà efficace – scrivono – se non si promuovono politiche pubbliche in favore della piccola agricoltura famigliare e contadina. Continueremo nella lotta per cambiare il sistema… non il clima».
Alba, dieci anni d’impegno contro le guerre
di Marinella Correggia per il Manifesto
I membri dell’Alleanza Alba, e soprattutto Cuba e Venezuela che la fondarono il 14 dicembre 2004, hanno una consolidata storia di impegno contro le guerre di aggressione (prosecuzione dell’imperialismo con altri mezzi e forma più estrema di distruzione umana e ambientale). Non c’è ancora l’Alba quando Cuba e Nicaragua si oppongono alla prima guerra per il petrolio contro l’Iraq. Il 29 novembre 1990 il Consiglio di sicurezza Onu approva la risoluzione 678, autorizzando la cosiddetta «operazione di polizia internazionale» di Bush padre e alleati (Italia compresa). Gli unici a resistere sono due membri di turno, non permanenti: Cuba vota contro, Yemen si astiene. L’ultimo tentativo negoziale vede protagonista il presidente sandinista Daniel Ortega. Fra gennaio e febbraio 1991 l’Iraq è raso al suolo. Nel paese ridotto alla fame dall’embargo, lavorano gratis medici cubani. Agosto 2000: Hugo Chávez diventato presidente del Venezuela è il primo capo di Stato a recarsi a Baghdad.
Il 5 marzo 1999 Cuba condanna la «ingiustificata aggressione contro la Jugoslavia»: i bombardamenti Nato su Serbia e Kosovo sono iniziati da pochi giorni. Fidel invita gli «jugoslavi» a «resistere, resistere e resistere». Anni dopo, il 21 febbraio 2008, Hugo Chávez spiega che il Venezuela non riconoscerà un Kosovo indipendente, una secessione nata dalle bombe dell’impero.
Il 23 settembre 2001 Fidel Castro avverte che attacchi militari Usa in Afghanistan potrebbero avere conseguenze catastrofiche. Cuba sostiene che una soluzione pacifica è possibile e che l’Assemblea dell’Onu può condurre la lotta al terrorismo senza bombe. Pochi giorni dopo piove morte sulle terrose casupole afghane. Guerra infinita: anni dopo, nel 2009, Fidel Castro scrive che il ritiro del Nobel per la pace da parte di Barack Obama è stato un «atto cinico».
Nel 2003, alla vigilia della nuova guerra annunciata contro l’Iraq, quasi tutti gli ambasciatori e relativi staff fuggono di gran carriera. Non i cubani. L’ambasciatore e parte dello staff rimangono sotto le bombe anglo-statunitensi aiutate dall’Italia. L’opposizione anche da parte del Venezuela è veemente: anni dopo all’Assemblea dell’Onu, Chávez paragonerà George W. Bush al diavolo che puzza di zolfo. Nel 2009 l’Ecuador non rinnova agli Usa la base militare di Manta.
Il 2011 vede in particolare Venezuela, Cuba e Nicaragua protagonisti di uno sforzo negoziale per impedire la guerra della Nato contro la Libia. Dicono molti no nel contesto dell’Onu. Il 3 marzo Fidel Castro chiede al mondo di sostenere la proposta negoziale per una soluzione pacifica, avanzata da Chávez e appoggiata dai membri dell’Alba (e da 40 partiti della sinistra latinoamericana), accettata dalla Libia. Padre Miguel D’Escoto del Nicaragua sandinista accetta di rappresentare all’Onu la Jamahiriya libica, perché all’ambasciatore mandato da Tripoli gli Usa non hanno dato il visto. Sotto le bombe dell’ennesima guerra con pretesti umanitari (Fidel la definisce «un crimine mostruoso»), la venezuelana Telesur è fra i pochi media che si discostano dall’esaltazione della guerra. Il presidente boliviano Evo Morales chiede che Obama restituisca il Nobel. Gli ambasciatori di Cuba e Venezuela restano a Tripoli durante l’aggressione.
L’ingerenza occidentale e petromonarchica che ha trasformato la crisi in Siria in una guerra devastante è più volte denunciata da Cuba, Venezuela, Bolivia e Nicaragua che, all’Assemblea dell’Onu come al Consiglio dei diritti umani a Ginevra, oppongono il loro voto a risoluzioni proposte da Occidente e paesi del Golfo, gli «amici della guerra» che «non danno spazio ad alcuna soluzione politica, non presentano prove, violano il diritto internazionale e si preparano a provocare più morte e distruzione». E mentre Europa e Usa impongono sanzioni al paese, il Venezuela manda carburante — come agli statunitensi poveri.
Lotta per la casa, lotta di classe. 21 marzo 1958 – 13 dicembre 2014
La legge Togni (21-3-1958) che prevedeva la vendita di tutto il patrimonio pubblico di alloggi a favore degli inquilini passata quasi all’ unanimità, anche con l’appoggio delle sinistre, produceva tanti piccoli proprietari di casa dividendo gli inquilini in grado di acquistare un appartamento da un’altra parte, più povera, che non poteva nemmeno disporre del milione, milione e mezzo di lire necessario per diventare proprietaria dell’appartamento.
Si costituiva così uno strato relativamente soddisfatto, sicuro almeno di disporre di un alloggio per tutta la vita e di trasmetterlo ai figli: l’operazione democristiana ebbe dunque un significato di ampia portata che si inseriva in quello analogo operato nello stesso periodo o poco prima con gli enti di riforma agraria (legge Segni).
In realtà ci furono delle resistenze a questa legge, ma soprattutto a livello di base. Nelle sezioni del PCI e del PSI, nelle assemblee di rione la parte più cosciente della classe operaia denunciò quello che veniva realizzato con questa legge: ci si disfaceva di un patrimonio ottenuto con i contributi di tutti i lavoratori, e che doveva essere a disposizione della generalità dei lavoratori invece che del libero mercato e, dunque, della proprietà privata; il fatto che questi milioni di vani (di tanto si tratta) restassero in affitto costituiva per il resto del mercato un enorme calmiere che agiva da freno al lievitare dei prezzi della casa.
Ma era proprio per questo che la legge (che porta il nome di una delle più sporche figure democristiane) venne varata: per dividere i lavoratori e per liberare il campo alla speculazione immobiliare. Il PCI e il PSI su questa legge non presero una posizione netta e di massa; nelle aziende solo poche avanguardie riuscirono a coinvolgere nella discussione le commissioni interne.
A Firenze le assemblee poco a poco si svuotarono, i comitati di inquilini non ressero di fronte alla “spontanea” aspirazione di altri decisi ad acquistarsi la casa dove vivevano.
Le vendite frazionate si estesero perciò a buona parte del patrimonio pubblico (Ina Casa – Case Fanfani ecc.); i comitati si sciolsero e con essi l’ultima iniziativa a livello territoriale che i partiti riformisti avessero preso con le caratteristiche di “movimento di massa” e di “antagonismo rispetto alla legge di mercato”.
Tratto da “Le lotte per la casa a Firenze” di Mattei – Morini – Simoni Ed. Savelli 1975
Nazione malata, capitale infetta
Non si può fare a meno di pensare a Pier Paolo Pasolini mano a mano che giungono notizie su Mafia Capitale. Aldilà della facile suggestione, ora si potrebbe quasi dire che oltre a sapere, “io so”, ci sono anche le prove. Le prove di un sistema fasciomafioso messo su grazie a compiacenze istituzionali e giuridiche. Non sono certo sufficienti gli sforzi di una Procura che per anni è stata famosa per essere un porto delle nebbie. Questa definizione risale ad anni e anni fa, quando il redditizio intreccio tra criminalità e potere era già una realtà. Già visibile a chi sapeva ma non aveva le prove.
E non sono certo sufficienti le telecomandate ondate di sdegno da parte di chi in quel caliginoso porto faceva approdare comodamente le proprie navi. La sovrapposizione tra mafia e politica, al punto di non capire più esattamente dove inizia l’una e finisce l’altra, non è storia recente. E, stiamone certi, non si esaurisce per gli effetti di una inchiesta giudiziaria. Affonda le radici in un terreno che ancor prima che giudiziario e politico, è culturale. Lo stesso che ha fatto germogliare i vari fascismi in giro per il Paese.
Quello “tradizionale”, alla faccia dei liquidatori delle ideologie del secolo passato; dei rottamatori dei formattatori e dei secessionisti di ogni sorta che da ormai troppo tempo martellano sul superamento della destra e della sinistra come categorie di riferimento.
È esattamente in questo solco che si annida il qualunquismo quale miglior viatico all’autoritarismo. Grazie anche a una certa sinistra che ha abbandonato le strade e le piazze per dedicarsi interamente al Palazzo. Per occuparlo. Per legittimare le nuove categorie sociali in cui riconoscersi. Estranee a qualsiasi tipo di reale partecipazione.
Democratici, cittadini, forzaitalioti e tutta una serie di post-qualcosa che servissero a scrollarsi di dosso le etichette tipiche di tutte le prime e le seconde repubbliche che si sono susseguite fino a oggi. Non ultima, quella uscita fuori da Mani Pulite. Dunque è quasi sempre la Magistratura che detta i termini di cambiamento. Per lo meno quelli per l’appunto che sanciscono istituzionalmente il passaggio da una repubblica all’altra.
In realtà, la società corre a una velocità ben diversa da quella burocratica. Anticipa, per bisogno e per necessità, le svolte “epocali” annunciate via via da governi che si succedono e si eliminano nell’arco di un battito d’ali. A volte, invece, rimane immobile, e vede il turbinio gattopardesco intorno a sé come un ineluttabile segno del destino. Eterni spettatori mai in prima fila. Allora è comodo rifugiarsi in quella sorta di limbo parastatale che sono le mafie. O quello che più prosaicamente è stato definito il “mondo di mezzo”.
Non vale l’indignazione se ci si è voltati dall’altra parte quando si denunciava e si gridava (e si continua a gridare), fino a rimanere senza voce, che la corruzione la malapolitica e il malaffare si erano impossessati di quel poco che rimaneva di ordinamento democratico. Più facile adagiarsi e consolarsi all’ombra di cronache fotocopia che riportavano (e continuano a riportare) solo problemi di ordine pubblico causati da isolate frange antagoniste. Da reduci del Secolo Breve.
Nel frattempo, mentre la realtà cominciava sempre più ad assomigliare a una pellicola di Terry Gilliam, Romanzo Criminale si ri-faceva realtà. Una realtà già accaduta quindi abbondantemente raccontata, e abbondantemente celebrata, che si riteneva solo per questo passata alla Storia. Invece no, ce la ritroviamo davanti ben piantata e in buona salute. Il sonno della Storia ha già generato mostri. Che hanno fatto in tempo a diventare grandi e capire dove e come è possibile rendere eterna la sonnolenza e perpetuare la propria esistenza.
Ai danni non di partiti o personalità di vario genere che si affannano a dichiarare la propria innocenza, ma al vero senso di comunità che è andato polverizzandosi sotto i colpi della finta democrazia al soldo del liberismo più sfrenato.
Cos’altro è altrimenti tutta questa storia di mazzette corrotti corruttori intimidazioni affari e prostituzione politica se non l’ennesima rivelazione della vera natura del capitalismo? Gli ingredienti ci sono tutti, e fa ribrezzo solo a pensare di elencarli, per quanto siano tutti straconosciuti. Lo sfruttamento, la violenza al servizio di un facile profitto, la manipolazione mediatica e le truffe elettorali, il terrorismo e il continuo richiamo alla “sicurezza” non sono degenerazioni del capitalismo: ne sono le fondamenta, gli alimenti indispensabili da cui ne trae nutrimento. La linfa vitale.
Quanto sta accadendo a Roma non è un fulmine a ciel sereno, ma la risultante di decenni di sistematico bombardamento delle regole più elementari del vivere civile. A cui hanno baldanzosamente partecipato, con ruoli da protagonista, meschine figure preposte a farle rispettare. Roma è una città violentata da decenni, massacrata dai cartelli della cementificazione selvaggia. Non ci sono dunque solo mondi di mezzo, superiori e inferiori, ma anche un mondo ai lati che ha rifiutato il diktat che imponeva (e continua a imporre) il dominio della merce sulle persone, il primato del profitto sulla umanità.
Per assurdo, si è venuto a scoprire che coloro i quali alimentavano il fuoco del progrom in versione italica erano gli stessi che facevano affari (e soldi, tanti soldi) sul business dell’accoglienza. Questo mostro che ci appare così lontano e quasi intangibile, in realtà è ben presente tra noi quando con sufficienza e superficialità liquidiamo la questione immigrazione come un inaccettabile pericolo per il nostro benessere.
Quando si accusano i rom di ogni nefandezza e colpevoli di nomadismo per nascondere le visibilissime crepe che si sono create nel nostro senso di solidarietà e nel nostro tessuto sociale. Ormai ridotto a brandelli, artificiosamente ricomposto a comando ogniqualvolta si avvicinano le scadenze elettorali.
Se permettiamo la distruzione della scuola pubblica, del welfare; se permettiamo che la Memoria diventi carta straccia o peggio ancora un ricordo, spianiamo la strada al più elementare dei fascismi. Quello quotidiano, quello che ci fa abituare a ogni ingiustizia se commessa poco più lontano della nostra vista, quello che asfalta i diritti per tutti in virtù dei privilegi per pochi. Quello di una informazione che non rende conto alla cittadinanza ma al proprio editore di appartenenza. Quello che gaudente va a braccetto con il nostro disinteresse e si sfrega le mani sapendoci inebetiti appresso ai simulacri del capitale.
“Se pijamo Roma”. Ed è il capitale che si è presa la Capitale.
Sotto forma di bande della magliana di holding del crimine o di amministrazioni criminali che continuano a lucrare sulle emergenze e sulle disperazioni di questa città incantata. La casa e il lavoro, innanzitutto, ma poi tutte le varie forme di disagio sociale alle quali non hanno saputo dar risposta se non quella dei manganelli e degli sgomberi. In perfetta sintonia quindi con tutta quella pseudo-filosofia del mondo di mezzo evocata dai professionisti della mafia. Che non è più una montagna di merda, ma una vera propria catena montuosa. Dove, tra l’altro, rischiano di finire stritolati alcune tra le vere vittime di questo ennesimo omicidio civile.
Lavoratori e lavoratrici di quelle cooperative che in condizioni di lavoro complicatissime, nel silenzio generale avevano già messo sotto accusa i propri gruppi dirigenti, diventati poi tristemente famosi per essere diventati il motore del meccanismo di corruzione all’interno del comune di Roma. Lavoratori e lavoratrici abbandonati da sindacati compiacenti che firmano con disinvoltura ogni genere di accordo. Sempre al ribasso e sempre sfavorevoli, per non disturbare il manovratore, salvo poi irretirsi allo spasimo per la peggiore riforma del lavoro mai concepita dal dopoguerra a oggi. In luogo di spendere risorse ed energie per internalizzare servizi che gli stessi enti pubblici erogano, si elargiscono oscene quantità di denaro a cooperative che di sociale non hanno altro che un pallido ricordo. Quando, parola di molti dirigenti del partito democratico, quelle stesse cooperative erano “il fiore all’occhiello della sinistra”. Qualcuno di quei dirigenti, prima di lasciare la guida delle legacoop per occupare la poltrona più alta del ministero del lavoro, s’intratteneva a tavola con parte di quella feccia che ora è venuta a galla. A sua insaputa, ovviamente.
Nel vortice di notizie di questi giorni, si sono rincorse conferme e smentite, analisi contro-analisi e immancabili editoriali di Saviano; partiti commissariati e sindaci scortati; amicizie abiurate ed ex-sindaci dalla memoria corta; indignati autentici e indignati improvvisati; attori pompati e calciatori rissosi in cerca di protezione; cardinali viziosi e parlamentari sul mercato.
Insomma, a guardarlo bene il solito penoso repertorio di un paese ferito ancor prima che nella sua identità, ammesso che ne possegga una, nell’immagine riflessa della sua ipocrisia. Di ignorare con olimpica calma il putiferio che gli si scatena nelle proprie viscere. Già messe a dura prova dagli usurpatori della partecipazione, dagli affossatori della dignità. Con arcaica modernità, per me continuano a essere i nemici del popolo.
In questo vortice mi sembra ci sia dimenticato di ricordare, per esempio, chi nel finire degli anni Settanta e al primo affacciarsi degli Ottanta, indagava e ricercava per impegno rivoluzionario e obbligo di verità i legami tra la estrema destra e apparati dello Stato, forze dell’ordine incluse.
E per questo fu assassinato, Valerio Verbano.
M.A.
La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo Kurdo
Domenica 14 Dicembre 2014
La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo Kurdo
Via S.Tommaso d’Aquino 11/A (Fermata Metro A: Cipro) – Roma
- Dalle 18.30: Incontro con Yilmaz Orkan, membro del Congresso Nazionale del Kurdistan e portavoce dell’Associazione Uiki. Ufficio d’Informazione del Kurdistan.
- Info e report dalla Staffetta Romana per Kobane.
- Proiezioni video sulla Rivoluzione del Rojava e sulla lotta del popolo kurdo.
- A seguire: Cena Sociale.
II Incontro Europeo di Solidarietà con la RPS. Dichiarazione Finale
Riuniti/e a Roma il 21-22-23 novembre 2014, accolti/e dall’Associazione Italia-Nicaragua, i/le delegati/e provenienti da diverse organizzazioni di solidarietà di Austria, Belgio, Catalogna, Spagna, Francia, Galles, Italia, Regno Unito, Svezia e Svizzera, hanno dato vita al II INCONTRO EUROPEO DI SOLIDARIETÀ CON LA RIVOLUZIONE SANDINISTA (RPS).
Riconosciamo nell’FSLN e nel Governo Sandinista, la continuità della RPS che ha restituito i diritti a donne, uomini, bambini/e. Riconosciamo anche il moltiplicarsi di nuovi programmi sociali, culturali, di rafforzamento politico ed economico dei/delle nicaraguensi tramite progetti sociali ed economici volti a sradicare la povertà. In base a ciò si decide:
- la costituzione del Comitato Europeo di Solidarietà con la RPS.
- L’approvazione del “Piano di Brigate europee internazionaliste per il 2015 di formazione politica in solidarietà con la RPS”.
- Consegnare al Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, la proposta di una Giornata Mondiale della Solidarietà da organizzarsi il 5 marzo 2015, data che coincide con il secondo anniversario della morte del Presidente Hugo Chávez Frías, contro l’espansione della NATO e la concentrazione economica e finanziaria che l’imperialismo, tramite il TTIP, vuole imporre ai popoli del mondo.
- Ridare vita ai gemellaggi già esistenti con i municipi nicaraguensi e promuovere la creazione di nuovi.
- Commemorare e celebrare il 35° Anniversario della Crociata Nazionale di Alfabetizzazione con tutte le organizzazioni presenti all’incontro.
- Riaffermare il nostro impegno internazionalista di continuare a lavorare a fianco del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in solidarietà con il popolo nicaraguense rafforzando i programmi sociali già esistenti contro la povertà, per l’uguaglianza sociale, il cooperativismo e lo sviluppo sostenibile del paese.
- Aderire al Manifesto della Piattaforma globale contro le guerre “NO ALLA GUERRA – NO ALLA NATO”.
- Appoggiare la proposta dell’FSLN di celebrare un Incontro Internazionalista di Solidarietà con la RPS e il popolo nicaraguense a luglio del 2015 a Managua.
- Rinforzare gli attuali mezzi di comunicazione della solidarietà europea con la RPS per migliorare l’efficacia della lotta contro l’assedio mediatico.
- Promuovere un Incontro con i movimenti sociali europei di solidarietà con l’ALBA.
Roma, 23 novembre 2014