LA MAFIA, QUESTA (S)CONOSCIUTA

catechismo

Nel perverso intreccio di notizie immagini commenti che ha caratterizzato la stampa istituzionale in questi ultimi giorni, specificamente sulla tragica vicenda di Boccea, a Roma, si nascondono (ma neanche tanto) le solite nefandezze di uno Stato e del governo che lo rappresenta, oramai totalmente adagiato sulla logica della dichiarazione a effetto e delle promesse che mai si riusciranno a mantenere.

Come avvoltoi, ci si avventa sul sangue ancora caldo delle vittime di una tragedia che immediatamente si trasforma in uno scontro inter-etnico.

Da un lato, la “cittadinanza stanca dei soprusi che reclama a gran voce sicurezza sicurezza sicurezza”; dall’altro una “etnia” che non solo terrorizza quotidianamente la popolazione con i suoi furti i suoi rapimenti di bambini e il suo criminale nomadismo, ma che per il solo fatto di esistere rappresenta una minaccia per il vivere civile.

E allora via al truce repertorio su ruspe sgomberi progrom di ogni genere e alla solita evanescenza di un centrosinistra, che amministra la città di Roma e presiede il governo nazionale, intento a rincorrere con affanno le politiche autoritarie e anti-migratorie della destra italiota.

Una rincorsa alla “identità” di cui ci si è resi conto può procurare molti voti.

D’altronde, nel clima di eterna campagna elettorale in cui vive il nostro paese, la tattica di soffiare sempre sul fuoco della disperazione e della emarginazione, quale essa sia, non può che rivelarsi vincente.

La pochezza delle rivendicazioni di una identità nazionale in confronto alla ineluttabilità – che porta in sé anche e soprattutto la tragicità – delle migrazioni, riesce a far breccia in quegli strati della popolazione abbandonati al degrado delle nostre periferie.

Dove, con scientifica precisione, sono stati via via tolti servizi, biblioteche, luoghi sani di aggregazione per fare spazio alla imprenditoria mafiosa.

Ancora una volta, per citare Eduardo Galeano, invece di combattere la povertà si combattono i poveri.

In quei luoghi dove però non arriva più la cultura, nel senso più ampio e umanistico si possa intendere, arriva quella sottospecie di Golem sociale che è la “politica” dei nostri tempi.

Castigatori di costumi e malefatte governative che solo fino a qualche minuto prima hanno contribuito a realizzare. Terminator mediatici addestrati a raccogliere consensi in nome dell’onestà, della legalità, della italianità.

Anche se scendono dalle valli padane e nell’ampolla sacra sostituiscono l’acqua del Po con l’olio di ricino.

Tuttavia, se ciò servisse a rivendicare una presunta purezza, ci sarebbe comunque poco da rallegrarsene; se sulle macerie della democrazia la mala-politica edifica la sua roccaforte non ci si può sfilare dalle proprie responsabilità. Una opposizione sociale seria e credibile deve affrontare ma soprattutto cercare di risolvere questa contraddizione.

Troppo spesso s’indugia sull’autenticità delle proprie posizioni a scapito di uno sforzo comune da impiegare per affermare un modello di società realisticamente alternativo a quello attuale basato su diseguaglianza arroganza e iniquità.

Il capitalismo fiorisce indisturbato sul terreno della frammentazione sociale e della mancanza di partecipazione.

E si riproduce grazie anche al prezioso sostegno delle mafie.

Che lo stato dice di combattere, e che invece utilizza solo per fare propaganda.

Celebra le vittime degli attentati, e nel frattempo istituzionalizza lo sfruttamento con il Jobs Act; demolisce il welfare e lo consegna alla privatizzazione lasciando la cittadinanza in balia della propria capacità di arrangiarsi; non chiude le frontiere ma tiene aperti CIE CARA e lager similari (la malavita ringrazia). Che altro è questo, se non mafia?

Ed è forse mafia quella che ha armato la mano che ha assassinato Mario Piccolino, “l’attivista anticamorra” di Formia, secondo la formula giornalistica con cui è stata riportata la notizia. Ed è proprio nelle pieghe di questa informazione supina, di cui si parlava all’inizio, che ritroviamo il vuoto di coscienza, civica politica e professionale, che alimenta l’odio verso qualsiasi forma di diverso e relega a notizia di quart’ordine un fatto terribile come questo.

Diciamolo subito e senza tanti giri di parole: Mario Piccolino non era Roberto Saviano. Con tutto il rispetto, ovviamente, per le condizioni in cui è costretto a vivere.

E sfortunatamente per lui, Mario Piccolino non è stato ucciso da un rom o da un “extracomunitario”. Avrebbe conquistato la ribalta della cronaca.

Combatteva la sua battaglia nel quasi anonimato di un ufficio e di un blog che denunciava sistematicamente le attività della criminalità organizzata intorno al mondo delle slot machine. Un sicario è entrato nel suo ufficio e l’ha freddato.

Ha avuto anche la sfortuna d’imbattersi, per così dire, in una dimensione mediatica occupata dalla canea contro “zingari” pirati della strada e attese spasmodiche per liste di politici “impresentabili”.

Liste stilate, detto en passant, dalla Commissione Antimafia.

Mario Piccolino era quello che si potrebbe definire un onesto lavoratore della civiltà.

Non era, e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, una star della lotta alle mafie. Portava avanti la sua battaglia in una delle tante, innumerevoli, zone d’Italia in cui la camorra è ormai organica al tessuto sociale”.

Benché quasi tutto abbia minimamente a che fare con il profitto sia infiltrato da camorra e ‘ndrangheta, dal business delle slot machine alla grande kermesse della expo – che in teoria dovrebbe essere il fiore all’occhiello del paese che la ospita – la risoluzione del problema non sembra altro che affidarsi ai superpoteri di un magistrato e ai sermoni di uno scrittore-intellettuale-tuttologo venerato come fosse una divinità.

Ed è proprio questo il punto. Roberto Saviano è un totem. Il solo criticarlo, equivale a una bestemmia. Una blasfemia.

Nei grandi temi che riguardano tutte le persone indistintamente, e la mafia lo è senza alcun dubbio, ci sarebbe bisogno di laicità e non della ipocrita morale tipica della retorica cattolica-patriottarda. D’altro canto l’Italia ha bisogno di qualcuno o di qualcosa che rappresenti il bene contrapposto al male. Di un comodo rifugio dove riporre gli sguardi sempre rivolti “dall’altra parte”. Dove riporre la nostra indifferenza.

C’è un disperato bisogno di un campione, riconosciuto e indiscusso, che tranquillizzi così le nostre coscienze che si tratti di rom immigrati o mafiosi.

L’autore di Gomorra, che tanto si era fatto apprezzare prima di lasciarsi incatenare al suo ruolo di Catone dei tempi moderni, dopo aver manifestato tutto il suo sostegno allo stato d’Israele, nella sua imperterrita e impunita persecuzione del popolo palestinese, impreziosisce la sua ascesa a totally embedded schierandosi al fianco dell’amministrazione USA nell’accusare il Venezuela di essere un narcostato.

Ipse dixit. Ormai è un oracolo che lo si interroga per qualsiasi dubbio attanagli lo scibile umano, dimenticando che ha costruito il suo complicato personaggio su scopiazzature e millantate amicizie. Come quella, tristemente nota, riguardante la famiglia di Peppino Impastato.

Piccoli dettagli che non hanno impedito però all’immaginario collettivo di farne una icona. Non è importante ciò che dice e soprattutto quali siano le sue fonti, guarda caso quasi sempre quelle di potenti governi e della loro stampa asservita; l’importante è che dica qualcosa. Dovesse dire che il sole tramonta la mattina e sorge la sera, la stampa e i predicatori televisivi di ogni risma si accapiglierebbero per assicurarsene l’esclusiva.

Senza scomodare Brecht, non abbiamo bisogno di eroi. Piccoli o grandi che siano. Artificiali o autentici che si voglia. Un paese che si adopera alacremente per distruggere la scuola pubblica e i diritti di lavoratori e lavoratrici e che riempie il suo mare di corpi inermi, rende un grosso favore alle mafie di ogni origine e provenienza. Concede loro la eternità.

Anche a quelle in doppiopetto alle quali ci siamo forse troppo disinvoltamente abituati. Quelle mafie che giocano in borsa e lucrano sulla pelle dei migranti.

Il capitalismo è una montagna di merda.

M.A.

Noi puoi uccidere un’idea se la sgomberi.

Alla Scuola e Cultura Popolare di Via Nola 5 si sono presentati all’alba con ruspe tronchesi e assetto antisommossa.

L’opera di demolizione è iniziata in sordina, quando la città ancora dormiva. Come fanno i topi d’appartamento, in definitiva. Come chi deve nascondersi dalla luce del sole per non rendere pubbliche le proprie malefatte. La città dormiva ma la cittadinanza sta con gli occhi ben aperti quando si continuano a commettere ingiustizie in nome della “legalità” e della “sicurezza”. Da anni Scup promuove propone e produce spazi di libertà in un tessuto sociale sempre più lacerato, in balia di amministrazioni di centro-qualsiasicosa che non riescono a dare risposte neanche alle esigenze basilari della popolazione.

Alla mercé di palazzinari e lobbies politiche. L’autorganizzazione, la occupazione di immobili che giacciono in alcuni cimiteri sociali, perché tali sono diventate molte zone delle nostre metropoli, fa paura. Ancor più l’idea, a volte, che la sua realizzazione; che strappare ai soliti esecutori del Sacco di Roma attraenti proprietà “in disuso” da trasformare nell’ennesimo centro commerciale o nell’ennesima palazzina in mano a privati. La socialità, lo sport popolare, la cultura, non hanno diritto di cittadinanza in territori urbani dove sembrano destinati a scomparire la solidarietà e il bene comune. Prevale invece la in-cultura della diffidenza, della guerra tra poveri, del disprezzo per qualsiasi cosa suoni a “diverso”; di ogni tipo di razzismo e fascismo.

Prevale, e rischia di affermarsi, un modello di società che riproduce pari pari quello della expo milanese: una immensa vetrina che luccica e abbaglia al cui interno si consuma il rito della sepoltura di ogni tipo di diritto. Un modello di società che ricalca il modus operandi del capitalismo, che seguita imperterrito a perseguire il suo obiettivo di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite.

Le giunte che si sono susseguite in tutti questi anni, aldilà del “colore” che dovrebbe caratterizzarle, avranno forse modalità diverse ma una cosa in comune: desertificare il dissenso. Si promette per non mantenere, tagli lineari ai servizi essenziali per le persone, controllo sociale spacciato per sicurezza, totale mancanza di risposte all’emergenza abitativa, continue intimidazioni nei confronti di spazi sociali autogestiti. Gestione mafiosa della cosa pubblica, mafia negli appalti. C’è una sola occupazione, illegale illegittima e realmente pericolosa, che bisognerebbe sgomberare; quella del Mondo di Mezzo sugli scranni del potere di questa città.

Per farlo c’è bisogno di una opposizione sociale che mantenga al suo interno le tante realtà che la animano, e tra innumerevoli difficoltà per un generale impoverimento culturale ancorché economico, e che invece sono diventate target per la voracità neoliberista e per i neo-asfaltatori che la la sostengono e l’alimentano.

Totale solidarietà a Scup!. Non si uccide una idea se la sgomberi.

Associazione Italia-Nicaragua;

Autorecupero SanTommaso;

Rete di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana – “Caracas ChiAma”;

Spazio Oxygene;

 

S.CU.P-web

 

II Incontro Europeo di Solidarietà con la RPS. Dichiarazione Finale

Foto di Gruppo

Riuniti/e a Roma il 21-22-23 novembre 2014, accolti/e dall’Associazione Italia-Nicaragua, i/le delegati/e provenienti da diverse organizzazioni di solidarietà di Austria, Belgio, Catalogna, Spagna, Francia, Galles, Italia, Regno Unito, Svezia e Svizzera, hanno dato vita al II INCONTRO EUROPEO DI SOLIDARIETÀ CON LA RIVOLUZIONE SANDINISTA (RPS).
Riconosciamo nell’FSLN e nel Governo Sandinista, la continuità della RPS che ha restituito i diritti a donne, uomini, bambini/e. Riconosciamo anche il moltiplicarsi di nuovi programmi sociali, culturali, di rafforzamento politico ed economico dei/delle nicaraguensi tramite progetti sociali ed economici volti a sradicare la povertà. In base a ciò si decide:

  1. la costituzione del Comitato Europeo di Solidarietà con la RPS.
  2. L’approvazione del “Piano di Brigate europee internazionaliste per il 2015 di formazione politica in solidarietà con la RPS”.
  3. Consegnare al Governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, la proposta di una Giornata Mondiale della Solidarietà da organizzarsi il 5 marzo 2015, data che coincide con il secondo anniversario della morte del Presidente Hugo Chávez Frías, contro l’espansione della NATO e la concentrazione economica e finanziaria che l’imperialismo, tramite il TTIP, vuole imporre ai popoli del mondo.
  4. Ridare vita ai gemellaggi già esistenti con i municipi nicaraguensi e promuovere la creazione di nuovi.
  5. Commemorare e celebrare il 35° Anniversario della Crociata Nazionale di Alfabetizzazione con tutte le organizzazioni presenti all’incontro.
  6. Riaffermare il nostro impegno internazionalista di continuare a lavorare a fianco del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale in solidarietà con il popolo nicaraguense rafforzando i programmi sociali già esistenti contro la povertà, per l’uguaglianza sociale, il cooperativismo e lo sviluppo sostenibile del paese.
  7. Aderire al Manifesto della Piattaforma globale contro le guerre “NO ALLA GUERRA – NO ALLA NATO”.
  8. Appoggiare la proposta dell’FSLN di celebrare un Incontro Internazionalista di Solidarietà con la RPS e il popolo nicaraguense a luglio del 2015 a Managua.
  9. Rinforzare gli attuali mezzi di comunicazione della solidarietà europea con la RPS per migliorare l’efficacia della lotta contro l’assedio mediatico.
  10. Promuovere un Incontro con i movimenti sociali europei di   solidarietà con l’ALBA.

 

Roma,  23  novembre 2014

(In allegato il Manifesto “NO alle guerre NO alla NATO” e
la “Proposta per una Giornata Mondiale di Solidarietà Internazionalista contro la NATO e il TTIP” – in Spagnolo)
Acuerdos 2º Encuentro Europeo de Solidaridad con la R. P. S. – ROMA (PDF)

DAVVERO SIAMO TUTTI JE SUIS ?

La marcia degli ipocriti
La marcia degli ipocriti

 

“In guerra, la prima vittima è la verità”. Eschilo

 

Facile, troppo facile. Troppo facile perché ipocrita, troppo ipocrita.

Indignarsi a comando, disperarsi a tempo. E appena qualche soffio di storia prima, quando le bombe dilaniavano corpi anonimi ad Ankara a Beirut e nei cieli del Sinai? I trafiletti di chi ora spalma a nove colonne un inenarrabile orrore racchiudono la gerarchia del dolore. Se nasci nella parte sbagliata del mondo anche la tua morte è un fastidio, un intralcio, un pericolo. Può suggerire che le prime vittime di questa guerra sono le stesse che premono alle frontiere della nostra fortezza.

Le democrazie che sventolano la pace nelle adunate elettorali e poi armano i peggiori regimi di questo pianeta, calpestano anche il pudore di fronte al sangue ancora caldo di una normale strage in una normale capitale occidentale in un normale venerdì sera. Quando l’ipocrisia prende il sopravvento è il nazionalismo, quello bieco e codino dei campi di battaglia dove a combattere e a cadere sono sempre gli altri, che si erge a difensore della umanità. E ancora prima di far sentire lo strepitio dei cannoni stravolge e distrugge il senso delle parole. Le declina secondo la migliore convenienza; le trasforma in ciò che si può comprendere meglio: in merce.

Compie, in definitiva, una vera e propria esegesi del linguaggio affinché non si abbiano dubbi sulla genuinità delle decisioni. Sulla veridicità della risposta. Che non a caso diventa reazione. Se ci sono infatti i nostri sacri valori a essere messi in pericolo, non c’è guerra santa che tenga. I musulmani sono i primi e i più numerosi a morire per mano dei tagliagola del califfato; le menti e i “martiri” delle stragi di Madrid Londra e Parigi sono cittadini belgi inglesi francesi, salvo poi trovare passaporti immacolati tra i resti irriconoscibili di un kamikaze. È L’Islam però a finire sul banco degli imputati, e per comodo sillogismo chiunque fugga dalle guerre provocate da quegli stessi governi delle quali ora si dichiarano vittime, è di per sé un pericolo, un invasore.

Ergo, un potenziale terrorista. Tutto questo mentre le grandi potenze occidentali e le petromonarchie del Golfo finanziano quanti più possibile eserciti della libertà per spodestare il Male e far insediare il Bene. Il Bene poi, sfuggito di mano e tramutatosi in mostro, semina il terrore nelle nostre città. In questa asimmetria è contenuta gran parte della retorica guerrafondaia che accompagna una popolazione impaurita, quindi infinitamente più facile da sottomettere, a farla propria. E a non saper più distinguere la libertà dalla normalità. I principi dai valori.

In nome della propria sicurezza si può calpestare qualsiasi diritto. Anche quello di non piegarsi alla ipocrisia istituzionalizzata. Ed è precisamente in questa macroscopica fessura che s’insinua la insensatezza di sentirsi qualcuno nonostante non lo si è. Se ci si è lasciata sfuggire – semplificando forse in maniera eccessiva, ce ne rendiamo conto – una identità collettiva che per quanto piena di limiti e contraddizioni riempiva il vuoto culturale attuale nel quale ha avuto buon gioco la retorica jihadista ad inserirvisi, risulta più agevole il je suis qualsiasi cosa. Anche la più nobile, sia chiaro, o la più dolorosa.

Non ce la prendiamo, ovviamente, con chi usa questa formula per esprimere vicinanza e partecipazione, ma si rimane quanto meno perplessi per la sua origine profondamente ingannevole. Un claim perfetto nel marketing del terrore e nella finta lotta per sconfiggerlo. A uso e consumo di una cittadinanza che in preda alla paura, comprensibilmente, non può fare altro che appropriarsene come efficace antidoto all’isolamento e alla disgregazione, rinunciando a capirne il senso che altro non è che la faccia, sporca, della stessa medaglia.

Se il sedicente stato islamico esporta  la guerra fuori dai suoi confini, disegnati e controllati dalle stesse superpotenze economico-militari che dichiarano a ogni pie’ sospinto di combattere, in una sorta di franchising del terrore, la popolazione occidentale si difende per procura, affidando lo sconcerto la rabbia e la indignazione a un generico slogan (un claim “pubblicitario”, appunto) che riscuote un immenso “successo” mediatico ma che in realtà non dice nulla.

Non comunica nulla. Se non la strisciante assoluzione di stati e governi che cercano, e spesso malauguratamente trovano, il consenso, cavalcando l’onda della paura. Questo vale per gli Hollande e gli Obama come per i Renzi e i Salvini. C’è quindi una trasposizione concreta, materiale, tragica, rispetto a come il Capitale finanziario intenda perseguire i propri obiettivi.

Sotto forma di feticcio antropologico – “i nostri valori sono più forti del vostro terrorismo” – nonché nella sua veste abituale, e cioè di sfruttamento e assoggettamento  di  una parte consistente del pianeta per rimpinzare casse sempre irrimediabilmente esangui. Nella sua irrefrenabile corsa all’accumulazione, la guerra non è vista come un ostacolo, ma anzi come una risorsa irrinunciabile. Una ghiottoneria alla quale è difficile resistere.

La Storia è piena di questi drammatici esempi, e solo la sconcertante cronaca di questi giorni può distoglierne l’attenzione. E c’è quindi una stretta relazione tra la recessione economica dell’ultimo decennio e la deriva terroristica contrassegnata, nello specifico, dall’IS. Tra la rinuncia a identificarne i veri responsabili e addossare la colpa alle migrazioni di turno, come fossero esse la causa delle guerre e non le politiche predatorie dei veri stati canaglia.

Stati Uniti e Unione Europea in testa, seguiti dalle micro-fortezze su base etnica uscite fuori dalla disgregazione della Unione Sovietica. Il filo spinato alle loro frontiere, in una Europa che si proclama aperta democratica e accogliente, esprime più di mille parole. Non è un caso che l’apparente protagonismo della Germania, messa a tacere dai recenti “scandali”, sia stato ridimensionato non appena si è profilata la ipotesi di un ennesimo intervento militare della coalizione. Quella che, sotto le insegne della NATO, ha già massacrato intere popolazioni e ha frustrato qualsiasi tentativo di pace in Medio Oriente.

Un vero stato canaglia come Israele, continua indisturbato i suoi raid nelle terre occupate, rafforzando il suo ruolo di criminale istituzionale in compagnia della Turchia e delle monarchie saudite. Di fatto, mentre va in onda la messinscena mediatica di costernazione con il sottofondo sonoro della Marsigliese, gli unici a tenere capo al Daesh sono i Curdi, e soprattutto le donne curde. Un dato irrefutabile che al contrario sparisce nelle pieghe della narrazione camuffata che risulta poi essere qualsiasi narrazione di guerra. Sparisce anche per volontà di una popolazione che preferisce autoassolversi dinanzi a un massacro che ancora una volta vede le vittime indifese, colpite nel pieno della loro “normalità”, piuttosto che puntare il dito verso la inettitudine di chi esercita qualsivoglia forma di potere. Nel nome di quegli stessi valori inrrinunciabili. Nondimeno sparisce, o meglio è già sparito da qualche tempo, anche un credibile Movimento per la Pace che sappia opporsi in maniera determinante al degrado culturale che ha inondato le nostre esistenze.

Ancor prima di chi fa saltare in aria trascinandosi vite innocenti, colpevoli solo dell’atroce delitto di vivere.

Essere contro la guerra significa dire sì ai diritti, alla libera circolazione delle persone e non solo delle merci, alla inclusione sociale e alla libertà di culto quale essa sia. Senza che questa rappresenti il pretesto per qualsivoglia forma di prevaricazione.

Significa rifiutare la cultura della sopraffazione a cui assistiamo oggi nel mondo del lavoro, distruggere l’arma del ricatto che previene e pregiudica la partecipazione a ogni forma di rivendicazione dei propri diritti.

Essere contro la guerra vuol dire disarticolare il simulacro della moderna democrazia che si regge sul 40% dei consensi a scapito di una maggioranza minoritaria, resa innocua grazie anche alla nostra incapacità di unirci per raggiungere obiettivi comuni.

Dire NO alla guerra significa rispettare i morti di ogni latitudine; non esistono attentati più dignitosi di altri, secondo la geometria variabile di chi li racconta nel mercimonio delle edizioni straordinarie.

Essere contro la guerra vuol dire non nascondersi dietro un je suis, ma gridare a gran voce: noi siamo. Da tradurre in tutte le lingue possibile e immaginabili.

Dobbiamo ricordarcene sempre, non solo quando la strategia del terrore viene a bussare alla nostra porta di casa.

M.A.

 

Sabato 23 maggio. “QUEI FILINI BLU” di Silvia Nati

Ass. Italia-Nicaragua, Circolo “Leonel Rugama” e Spazioxygene presentano

 

“QUEI FILINI BLU” di Silvia Nati

(da una storia vera)

 

con: Roberta Fornier, Silvia Nati
regia: Annapaola Bardeloni
assistente alla regia: Alessio Aronne

Con il patrocinio istituzionale dell’Ambasciata Argentina in Italia

23.5.15

Sono appena appena 116.
116 su 500.
116 recuperati su 500 “scomparsi”. Bambini scomparsi nell”Argentina degli anni ’70 che oggi sono uomini e donne con vite diverse da quelle che erano destinati ad avere.
116 sono pochi.
Un “pugno di persone” che mostra, grida, testimonia che la Storia non si può cancellare, e che nonostante la dittatura militare abbia tentato di sotterrare la loro vera identità non tutto può essere nascosto, non tutto può esser fatto scomparire.
Sono 500 i bambini che scomparvero durante il regime militare instaurato in Argentina il 24 marzo del 1976. Furono sequestrati insieme ai genitori o fatti nascere in uno qualsiasi dei tanti centri clandestini di detenzione.
Ad oggi se ne sono potuti identificare 116 grazie alla ricerca instancabile delle loro famiglie e all’appoggio delle Abuelas di Plaza de Mayo.
Alcuni di loro furono “adottati” degli stessi sequestratori dei loro genitori, cercando di cancellarne completamente l’identità, le tracce dei loro legami precedenti. Perché non si corresse il rischio che diventassero come coloro che li avevano generati; esseri liberi pronti a creare una società libera.

Questo spettacolo racconta la Storia vera di una di questi 116 bambini.

Analìa ha soperto un giorno di non essere Analìa.
Ha scoperto, da adulta, che i suoi genitori non erano quelli che aveva sempre chiamato “papà e mamma”, che il suo sangue aveva il colore della rivolta e della desaparicion, che era nata in un centro di tortura – ultimo tetto della sua vera mamma – che nulla di ciò che sapeva di se stessa corrispondeva alla verità… nemmeno il suo anno di nascita.
Cosa può fare un essere umano che si guarda allo specchio senza più sapere chi è? Andare verso il futuro guardando il passato.
Accettare di essere “due” per potersi ricomporre in una unica persona ogni giorno da scoprire e accettare.
Per questo in scena ci sono due donne per raccontare una sola persona. Entrambe sono il passato. Entrambe saranno il futuro.
La lotta interiore contro qualcosa di troppo grande per poter essere compreso, ma inesorabilmente presente per poter essere ignorato.
Ora Analìa si chiama Victoria e il suo cognome appartiene ai suoi veri genitori desaparecidos. Le ferite si chiudono, ma le cicatrici restano. E questi segni dell’anima e del cuore sono la fotografia di una Storia personale e comune.
È la storia di trentamila desaparecidos, è la lotta delle coraggiose Madres e Abuelas de Plaza de Mayo che ancora oggi si battono per la giustizia e la memoria dei propri figli e nipoti. È la storia di un paese che finalmente decide di fare i conti con il passato riaprendo i tribunali e abolendo le leggi di impunità di cui i militari hanno goduto per anni. È la storia di una Donna alla ricerca della propria identità.

Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo.
A. Bardeloni

 


Dalle 20 APERITIVO _ Ore 21 INIZIO SPETTACOLO
Ingresso Libero Uscita a Cappello

@Spazioxygene Via San Tommaso D’Aquino, 11/a (Metro Cipro)

Jobs Act conoscerlo per combatterlo

jobsAct

 

Ad un mese dalla definitiva entrata in vigore del “Jobs Act” e ad una settimana dall’inaugurazione dell’expo, ennesimo scempio ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori,  l’associazione Italia-Nicaragua e Spazioxygene vi invitano all’incontro:

Jobs Act conoscerlo per combatterlo

intervengono
GIOVANNI DE FRANCESCO avvocato del lavoro
CLASH CITY WORKERS
CONFEDERAZIONE COBAS

Venerdì 8 maggio ore 18
Via San Tommaso D’Aquino, 11/a (M Cipro)

La resistenza di KOBANE e la lotta del popolo KURDO

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Un incontro per ascoltare le impressioni di chi ha visitato il campo profughi di Suruc, raccogliere aiuti per appoggiare le attività di Rojava Calling e della Mezzaluna Rossa Curda, discutere su un tentativo di autodeterminazione democratica e resistente in un contesto di violenza che l’Occidente ha contribuito ad alimentare salvo poi doverne istericamente gestire le conseguenze.

INTERVENITE E DIFFONDETE

“Mettiamo in comune la nostra terra, acqua, energia, costruiamo una vita democratica libera.”
Abdullah Ocalan

I GIGANTI AGRICOLI OCCIDENTALI SI ACCAPARRANO L’UCRAINA

Frederic Mousseau  Direttore delle Politiche all’Oakland Institute

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Nello stesso momento in cui gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea annunciavano una nuova serie di sanzioni contro la Russia nella metà del dicembre dello scorso anno, l’Ucraina riceveva 350 milioni di dollari in aiuti militari da parte degli USA, arrivati subito dopo un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari approvato nel marzo 2014 dal Congresso degli Stati Uniti. Il maggior coinvolgimento dei governi occidentali nel conflitto in Ucraina è un chiaro segnale della fiducia nel consiglio stabilito dal nuovo governo durante i primi giorni di dicembre.

Questo nuovo governo è più unico che raro nella sua specie, dato che tre dei suoi più importanti ministri sono stranieri a cui è stata accordata la cittadinanza Ucraina solo qualche ora prima di incontrarsi per questo loro appuntamento. Il titolo di Ministro delle Finanze è andato a Natalie Jaresko, una donna di affari nata ed educata in America, che lavora in Ucraina dalla metà degli anni ’90, sovraintendente di un fondo privato stabilito dal governo US come investimento nel Paese. Jaresko è anche Amministratore Delegato dell’Horizon Capital, un’azienda che amministra e gestisce svariati investimenti nel Paese.

Per strano che possa sembrare, questo appuntamento è in linea con ciò che ha tutta l’aria di essere una acquisizione dell’economia ucraina da parte dell’occidente. In due inchieste – “La Presa di Potere delle Aziende sull’Agricoltura Ucraina” e “Camminando dalla Parte dell’Ovest: La Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale nel Conflitto Ucraino” – l’Oakland Institute ha documentato questa presa di potere, in particolarmente evidente nel settore agricolo. Un altro fattore importante nella crisi che ha portato alle proteste mortali ed infine all’allontanamento dagli uffici del president Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, è stato il suo rifiuto di un patto dell’Associazione UE, volto all’espansione del commercio e ad integrare l’Ucraina alla UE, un patto legato ad un prestito di 17 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale.

Dopo la dipartita del presidente e l’installazione di un governo pro-occidente, il Fondo Monetario Internazionale ha messo in atto un programma di riforme come condizione a questo prestito, allo scopo di incrementare gli investimenti privati nel Paese. Il pacchetto delle misure adottate include la fornitura pubblica di acqua ed energia e, ancor più importante, si rivolge a ciò che la Banca Mondiale identifica col nome di “radici strutturali” dell’attuale crisi economica esistente in Ucraina, con un occhio in particolare all’alto costo del generare affari nel paese. Il settore agricolo ucraino è stato un obiettivo primario per gli investitori stranieri ed è quindi logicamente visto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Centrale come un settore prioritario da riformare. Entrambe le istituzioni lodano la prontezza del nuovo governo nel seguire i loro suggerimenti.

Ad esempio, il piano d’azione della riforma agraria guidata dall’occidente nei confronti dell’Ucraina include la facilitazione nell’acquisizione di terreni agricoli, norme e controlli sulle fabbriche e sulla terra, e la riduzione delle tasse per le aziende e degli oneri doganali. Gli interessi che gravitano intorno al vasto settore agricolo dell’Ucraina, che è il terzo maggior esportatore di mais ed il quinto di grano, non potrebbero essere più alti. L’Ucraina è nota per i suoi ampi appezzamenti di suolo scuro e ricco, e vanta più di 32 milioni di ettari di terra fertile ed arabile, l’equivalente di un terzo dell’intera terra arabile di tutta l’Unione Europea. La manovra per il controllo sul sistema agricolo del paese è un fattore decisivo nella lotta che sta avendo luogo negli ultimi anni tra occidente ed oriente, fin dalla Guerra Fredda.

La presenza di aziende straniere nell’agricoltura ucraina sta crescendo rapidamente, con più di 1.6 milioni di ettari acquistati da compagnie straniere per scopi agricoli negli ultimi anni. Sebbene Monsanto, Cargill e DuPont siano in Ucraina per parecchio tempo, I loro investimenti nel paese sono cresciuti in modo significativo in questi ultimi anni. Cargill, gigante agroalimentare statunitense, è impegnato nella vendita di pesticidi, sementi e fertilizzanti ed ha recentemente espanso i suoi investimenti per acquistare un deposito di stoccaggio del grano, nonchè una partecipazione nella UkrLandFarming, il maggiore agrobusiness dell’Ucraina.

Similarmente, la Monsanto, altra multinazionale Americana, era già da un pò in Ucraina, ma ha praticamente duplicato il suo team negli ultimi tre anni. Nel marzo 2014, appena qualche settimana dopo la destituzione di Yanukovych, l’azienda investì 140 milioni nella costruzione di un nuovo stabilimento di sementi in Ucraina. Anche la DuPont ha allargato i suoi investimenti annunciando, nel giugno 2013, la volontà di investire anch’essa in uno stabilimento di sementi nel paese. Le aziende occidentali non hanno soltanto preso il controllo su una porzione redditizia di agribusiness e alter attività agricole, hanno iniziato una vera e propria integrazione verticale nel settore agricolo, estendendo la presa sulle infrastrutture e sui trasporti.

Per dire, la Cargill al momento possiede almeno Quattro ascensori per silos e due stabilimenti per la lavorazione dei semi di girasole e la produzione di olio di girasole. Nel dicembre 2013 l’azienda ha acquistato il “25% + 1% condiviso” in un terminal del grano nel porto di Novorossiysk, nel Mar Nero, terminal con una capacità di 3.5 milioni di tonnellate di grano all’anno. Tutti gli aspetti della catena di fornitura dell’Ucraina Agricola – dalla produzione di sementi ed altro, all’attuale possibilità di spedizione di merci fuori dal paese – stanno quindi incrementando sotto il controllo dei colossi occidentali.

Le istituzioni europee ad il governo degli US hanno attivamente promosso questa espansione. Tutto è iniziato con la spinta per un cambiamento di governo quando il fu presidente Yanukovych era visto come un filorusso, manovra ulteriormente incrementata, a cominciare dal febbraio 2014, attraverso la promozione di un’agenda delle riforme “pro-business”, come descritto dall’US Segretario del Commercio Penny Pritzker durante il suo incontro con il Primo Ministro Arsenly Yatsenyuk nell’ottobre 2014.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno lavorando duramente, mano nella mano, per prendere possesso dell’agricoltura ucraina. Sebbene l’Ucraina no permetta la produzione di coltivazioni geneticamente modificate (OGM), l’Accordo Associato tra UE e l’Ucraina, che accese il conflitto che poi espulse Yanukovych, include una clausula (articolo 404) che impegna entrambe le parti a cooperare per “estendere l’uso delle biotecnologie” all’interno del paese.

Questa clausula è sorprendente, dato che la maggior parte dei consumatori europei rifiuta l’idea delle coltivazioni OGM. Ad ogni modo, essa crea un’apertura in grado di portare I prodotti OGM in Europa, un’opportunità tanto desiderata dai grandi colossi agroalimentari, come ad esempio Monsanto. Aprendo l’Ucraina alle coltivazioni OGM si andrebbe contro la volontà dei cittadini europei, e non è chiaro come questo cambiamento potrebbe portare migliorie alla popolazione ucraina.

Allo stesso modo non è chiaro come gli ucraini beneficeranno di questa ondata di investimenti stranieri nella loro agricoltura, e quale sarà l’impatto che questi ultimi avranno su sette milioni di agricoltori locali.
Alla fine, una volta che si distoglierà lo sguardo dal conflitto nella parte est “filorussa” del paese, I cittadini ucraini potrebbero domandarsi cosa ne è rimasto della capacità del paese di controllare e gestire l’economia e le risorse a loro proprio beneficio. Quanto ai cittadini statunitensi ed europei, alla fine si sveglieranno dalle retoriche sulle aggressioni russe e sugli abusi dei diritti umani, e contesteranno il coinvolgimento dei loro governi nel conflitto ucraino?