DAVVERO SIAMO TUTTI JE SUIS ?

La marcia degli ipocriti
La marcia degli ipocriti

 

“In guerra, la prima vittima è la verità”. Eschilo

 

Facile, troppo facile. Troppo facile perché ipocrita, troppo ipocrita.

Indignarsi a comando, disperarsi a tempo. E appena qualche soffio di storia prima, quando le bombe dilaniavano corpi anonimi ad Ankara a Beirut e nei cieli del Sinai? I trafiletti di chi ora spalma a nove colonne un inenarrabile orrore racchiudono la gerarchia del dolore. Se nasci nella parte sbagliata del mondo anche la tua morte è un fastidio, un intralcio, un pericolo. Può suggerire che le prime vittime di questa guerra sono le stesse che premono alle frontiere della nostra fortezza.

Le democrazie che sventolano la pace nelle adunate elettorali e poi armano i peggiori regimi di questo pianeta, calpestano anche il pudore di fronte al sangue ancora caldo di una normale strage in una normale capitale occidentale in un normale venerdì sera. Quando l’ipocrisia prende il sopravvento è il nazionalismo, quello bieco e codino dei campi di battaglia dove a combattere e a cadere sono sempre gli altri, che si erge a difensore della umanità. E ancora prima di far sentire lo strepitio dei cannoni stravolge e distrugge il senso delle parole. Le declina secondo la migliore convenienza; le trasforma in ciò che si può comprendere meglio: in merce.

Compie, in definitiva, una vera e propria esegesi del linguaggio affinché non si abbiano dubbi sulla genuinità delle decisioni. Sulla veridicità della risposta. Che non a caso diventa reazione. Se ci sono infatti i nostri sacri valori a essere messi in pericolo, non c’è guerra santa che tenga. I musulmani sono i primi e i più numerosi a morire per mano dei tagliagola del califfato; le menti e i “martiri” delle stragi di Madrid Londra e Parigi sono cittadini belgi inglesi francesi, salvo poi trovare passaporti immacolati tra i resti irriconoscibili di un kamikaze. È L’Islam però a finire sul banco degli imputati, e per comodo sillogismo chiunque fugga dalle guerre provocate da quegli stessi governi delle quali ora si dichiarano vittime, è di per sé un pericolo, un invasore.

Ergo, un potenziale terrorista. Tutto questo mentre le grandi potenze occidentali e le petromonarchie del Golfo finanziano quanti più possibile eserciti della libertà per spodestare il Male e far insediare il Bene. Il Bene poi, sfuggito di mano e tramutatosi in mostro, semina il terrore nelle nostre città. In questa asimmetria è contenuta gran parte della retorica guerrafondaia che accompagna una popolazione impaurita, quindi infinitamente più facile da sottomettere, a farla propria. E a non saper più distinguere la libertà dalla normalità. I principi dai valori.

In nome della propria sicurezza si può calpestare qualsiasi diritto. Anche quello di non piegarsi alla ipocrisia istituzionalizzata. Ed è precisamente in questa macroscopica fessura che s’insinua la insensatezza di sentirsi qualcuno nonostante non lo si è. Se ci si è lasciata sfuggire – semplificando forse in maniera eccessiva, ce ne rendiamo conto – una identità collettiva che per quanto piena di limiti e contraddizioni riempiva il vuoto culturale attuale nel quale ha avuto buon gioco la retorica jihadista ad inserirvisi, risulta più agevole il je suis qualsiasi cosa. Anche la più nobile, sia chiaro, o la più dolorosa.

Non ce la prendiamo, ovviamente, con chi usa questa formula per esprimere vicinanza e partecipazione, ma si rimane quanto meno perplessi per la sua origine profondamente ingannevole. Un claim perfetto nel marketing del terrore e nella finta lotta per sconfiggerlo. A uso e consumo di una cittadinanza che in preda alla paura, comprensibilmente, non può fare altro che appropriarsene come efficace antidoto all’isolamento e alla disgregazione, rinunciando a capirne il senso che altro non è che la faccia, sporca, della stessa medaglia.

Se il sedicente stato islamico esporta  la guerra fuori dai suoi confini, disegnati e controllati dalle stesse superpotenze economico-militari che dichiarano a ogni pie’ sospinto di combattere, in una sorta di franchising del terrore, la popolazione occidentale si difende per procura, affidando lo sconcerto la rabbia e la indignazione a un generico slogan (un claim “pubblicitario”, appunto) che riscuote un immenso “successo” mediatico ma che in realtà non dice nulla.

Non comunica nulla. Se non la strisciante assoluzione di stati e governi che cercano, e spesso malauguratamente trovano, il consenso, cavalcando l’onda della paura. Questo vale per gli Hollande e gli Obama come per i Renzi e i Salvini. C’è quindi una trasposizione concreta, materiale, tragica, rispetto a come il Capitale finanziario intenda perseguire i propri obiettivi.

Sotto forma di feticcio antropologico – “i nostri valori sono più forti del vostro terrorismo” – nonché nella sua veste abituale, e cioè di sfruttamento e assoggettamento  di  una parte consistente del pianeta per rimpinzare casse sempre irrimediabilmente esangui. Nella sua irrefrenabile corsa all’accumulazione, la guerra non è vista come un ostacolo, ma anzi come una risorsa irrinunciabile. Una ghiottoneria alla quale è difficile resistere.

La Storia è piena di questi drammatici esempi, e solo la sconcertante cronaca di questi giorni può distoglierne l’attenzione. E c’è quindi una stretta relazione tra la recessione economica dell’ultimo decennio e la deriva terroristica contrassegnata, nello specifico, dall’IS. Tra la rinuncia a identificarne i veri responsabili e addossare la colpa alle migrazioni di turno, come fossero esse la causa delle guerre e non le politiche predatorie dei veri stati canaglia.

Stati Uniti e Unione Europea in testa, seguiti dalle micro-fortezze su base etnica uscite fuori dalla disgregazione della Unione Sovietica. Il filo spinato alle loro frontiere, in una Europa che si proclama aperta democratica e accogliente, esprime più di mille parole. Non è un caso che l’apparente protagonismo della Germania, messa a tacere dai recenti “scandali”, sia stato ridimensionato non appena si è profilata la ipotesi di un ennesimo intervento militare della coalizione. Quella che, sotto le insegne della NATO, ha già massacrato intere popolazioni e ha frustrato qualsiasi tentativo di pace in Medio Oriente.

Un vero stato canaglia come Israele, continua indisturbato i suoi raid nelle terre occupate, rafforzando il suo ruolo di criminale istituzionale in compagnia della Turchia e delle monarchie saudite. Di fatto, mentre va in onda la messinscena mediatica di costernazione con il sottofondo sonoro della Marsigliese, gli unici a tenere capo al Daesh sono i Curdi, e soprattutto le donne curde. Un dato irrefutabile che al contrario sparisce nelle pieghe della narrazione camuffata che risulta poi essere qualsiasi narrazione di guerra. Sparisce anche per volontà di una popolazione che preferisce autoassolversi dinanzi a un massacro che ancora una volta vede le vittime indifese, colpite nel pieno della loro “normalità”, piuttosto che puntare il dito verso la inettitudine di chi esercita qualsivoglia forma di potere. Nel nome di quegli stessi valori inrrinunciabili. Nondimeno sparisce, o meglio è già sparito da qualche tempo, anche un credibile Movimento per la Pace che sappia opporsi in maniera determinante al degrado culturale che ha inondato le nostre esistenze.

Ancor prima di chi fa saltare in aria trascinandosi vite innocenti, colpevoli solo dell’atroce delitto di vivere.

Essere contro la guerra significa dire sì ai diritti, alla libera circolazione delle persone e non solo delle merci, alla inclusione sociale e alla libertà di culto quale essa sia. Senza che questa rappresenti il pretesto per qualsivoglia forma di prevaricazione.

Significa rifiutare la cultura della sopraffazione a cui assistiamo oggi nel mondo del lavoro, distruggere l’arma del ricatto che previene e pregiudica la partecipazione a ogni forma di rivendicazione dei propri diritti.

Essere contro la guerra vuol dire disarticolare il simulacro della moderna democrazia che si regge sul 40% dei consensi a scapito di una maggioranza minoritaria, resa innocua grazie anche alla nostra incapacità di unirci per raggiungere obiettivi comuni.

Dire NO alla guerra significa rispettare i morti di ogni latitudine; non esistono attentati più dignitosi di altri, secondo la geometria variabile di chi li racconta nel mercimonio delle edizioni straordinarie.

Essere contro la guerra vuol dire non nascondersi dietro un je suis, ma gridare a gran voce: noi siamo. Da tradurre in tutte le lingue possibile e immaginabili.

Dobbiamo ricordarcene sempre, non solo quando la strategia del terrore viene a bussare alla nostra porta di casa.

M.A.